Etiopia magica

Salita al Ras Dasciàn

Testo di Bianca Cremonesi, fotografie di Alberto Vascon

Novembre 1997

 
Prima tappa: Sanca Ber - Ghich
Seconda tappa: Escursione all'Emiètgogò
Terza tappa: Ghich - Cennèk
Quarta tappa: Cennèk - Ambicò
Quinta tappa: Ras Dasciàn
Sesta tappa: Ambicò - Cennèk
Settima tappa: Cennèk - Sanca Ber

 

Non c’è alcun dubbio che i monti del Semièn, i più alti dell’acrocoro etiopico, siano le cime più belle di tutta l’Africa. Più belle del Kilimangiaro, con le sue splendide nevi sullo sfondo delle giraffe dell’Amboseli. Più belle del difficile monte Kenia, circondato da foreste e timidamente nascosto dalle nubi. Più belle del maestoso Ruwenzori, con le sue lobelie e le sue cime innevate. Il Semièn si stende, con un dislivello di quasi quattromila metri in pochi chilometri, fra l’altopiano e la torrida valle del Taccazè, un fiume che nasce nei pressi di Uoldià, nei pressi della statale Addis Abeba-Asmara, e poi va a segnare il confine fra Etiopia ed Eritrea. Se vai sul Semièn in novembre, dopo la stagione delle piogge etiopiche, ti puoi far sorprendere da grandi acquazzoni, perché a quelle altitudini le piogge durano di più, ma tutto è verde, pieno di fiori, l’aria è limpida e lo sguardo spazia all’infinito. Se ci vai nella stagione secca, i colori mutano e diventano più caldi, il paesaggio sembra meno aspro. Se hai visto i quattro monti più alti dell’Africa, non li dimenticherai. Ma il Semièn ti rimarrà nel cuore non solo perché è veramente la montagna più bella, ma perché ti ha elargito, senza limiti numerici, i più splendidi paesaggi africani.

Alberto ed io decidemmo di andarci in novembre quando, finite ormai le piogge, i fiumi si abbassano e diventano guadabili. Il trekking sul Semièn è una faticosa sgambata di sette giorni, dove non sono richieste abilità alpinistiche ma solo buone gambe e capacità di adattamento. Non è necessaria un’attrezzatura particolare, solo scarpe da trekking e abbigliamento che tenga conto di temperature che possono andare dai tre-quattro gradi di notte ai trenta-trentacinque di giorno. Il trekking classico è di sette giorni, per un totale di centoventi chilometri, ad un altitudine compresa fra i 2700 e i 4200 metri, con una punta di 4620 per arrivare in vetta al Ras Dasciàn. Il Ras Dasciàn è la quarta montagna più alta dell’Africa, dopo il Kilimangiaro, il Monte Kenia e il Ruwenzori. E’ stato scalato per la prima volta nel 1841 da Ferret e Galinier, è fuori dai normali circuiti turistici ed è meta solo dei turisti più ambiziosi.

Organizzammo tutto tramite un tour operator di Addis Abeba, che ci procurò i muli, i cavalli, le tende e il personale: una guida, un capo gruppo, un capo campo, un cuoco, un aiutante, un addetto ai cavalli e un addetto ai muli. Raggiungemmo Gondar in aereo da Addis Abeba, poi con un fuoristrada ci recammo a Debark, un villaggio sulla strada Gondar-Aksum, dove ha sede la direzione del Parco Nazionale del Semièn. Qui ottenemmo i permessi per il trekking e ci fu assegnato un ranger che ci accompagnerà per tutto il viaggio. L’appuntamento con gli uomini e gli animali è a Sanca Ber, avamposto dei rangers, che si trova a circa trentacinque chilometri a est di Debark.

Da Debark a Sanca Ber si percorre una strada in terra battuta tutta curve alla quota di circa 3.000 metri, con grandi viste a nord e a est verso la valle del Taccazè. Il versante nord del Semièn precipita quasi a picco per circa 2000 metri, e si estende verso est disegnando guglie, precipizi, forre per decine di chilometri. In lontananza si gode la visione dei monti di Hauazà, che assumono un bel colore azzurro alla luce del mattino. Più lontano ancora, i famosi Saitàn Metaià, il Furore del Diavolo, una serie di guglie paurose che raggiungono i 2700 metri, conosciute come le montagne del diavolo.

La parete nord del Semièn.
 

I monti di Hauazà, avvicinati con il tele.
 

Saitàn Metaià, i Monti del Diavolo.

Il paesaggio è accattivante: i monti sono completamente coperti di verde, macchie di erica arborea si alternano ad altre di iperico e a cespugli di rose abissine. Qui l’erica e l’iperico non sono cespuglietti pieni di fiorellini come dalle nostre parti, qui sono dei veri e propri alberi che raggiungono i sei metri di altezza. Branchi di timide gelada, scimmie endemiche dell’Etiopia, curiose di tutto, osservano da lontano senza fuggire. Queste scimmie assomigliano ai babbuini e vivono in gruppi formati da un maschio e poche femmine. I gruppi si possono fondere formando branchi che possono arrivare a varie centinaia di individui. I maschi adulti ostentano una folta criniera, mentre tutti indistintamente hanno disegnata una macchia rossa sul torace. Vivono in mezzo ai dirupi ad alta quota e si cibano di erbe e di bulbi.

 

Rosa abyssinica
 

Un gelada infuriato mette in mostra i possenti canini e socchiude gli occhi rendendo visibili le palpebre inferiori bianche, accentuando così l’espressione minacciosa.  

Arriviamo a Sanca Ber, a 3230 metri di quota, dove inizierà il nostro trekking. Sanca significa “tavola da ponte”, quelle che si usano nei ponteggi dell’edilizia o per superare un fosso, ber significa porta; Sanca Ber quindi indica un passaggio stretto e obbligato, ed in effetti è una lingua di terra fra il precipizio della parete nord del Semièn e il burrone del fiume Coba a sud. Sanca Ber è l’unico accesso al Semièn dall’altopiano. A nord la vista spazia per centinaia di chilometri sulla valle della Taccazè, 2.000 metri più in basso, a nord-est si intravede lontanissimo l’arido bassopiano sudanese, ma basta girarsi e a sud, a pochi metri, ci si trova la parete verticale del vallone.

 

Prima tappa: Sanca Ber - Ghich: a Sanca Ber ci organizziamo per la partenza. Abbiamo tre muli e due cavalli e li carichiamo con un bagaglio leggero, lo stretto necessario per  un  trekking sicuro e tranquillo. Siamo ormai a metà della giornata quando affrontiamo la prima tappa con  l’intento di raggiungere il villaggio di Ghich, a quota 3.600.

Sanca Ber, preparazione per il trekking.

Seguiamo i muli a piedi lungo la sterrata che abbandoniamo quasi subito e iniziamo a salire per scorciatoie e quindi sentieri che scendono per poi risalire i fianchi di monti che delimitano verdi vallate quasi interamente coltivate o adibite a pascoli. Bellissimi ci appaiono prati fitti di kniphophie rosse e gialle dove il profumo intenso dei fiori rende delicata la vista di panorami superbi che aprono a precipizi e a cime che si elevano improvvise ed inaspettate da vallate profondissime. Su queste ripide pareti vivono gli ultimi esemplari di ualià, lo stambecco abissino, uno degli animali più rari del mondo, anche questo endemico dell’Etiopia. Qui si trova anche la volpe del Semièn, il canis simensis, altro animale rarissimo che però si vede più facilmente sull’altopiano del Bale, nell’Etiopia meridionale.

Il Parco Nazionale del Semièn fu costituito nel 1969 per proteggere lo stambecco, di cui sembra che sopravvivano non più di 300 esemplari. Nel parco si possono vedere anche la piccola antilope saltarupe o sassà, il tragelafo striato e la iena mentre il leopardo, anch’esso presente, è praticamente invisibile.

Kniphophia
 

Canis simensis, la volpe del Semièn.
 

Il sentiero costeggia i precipizi del versante nord del Semièn.

Nei fondovalle attraversiamo spesso ruscelli di acqua limpidissima che talvolta assumono l’aspetto di fiumiciattoli; altri piccoli corsi d’acqua si incontrano anche in alto ed allora si possono godere dei salti d’acqua altissimi che disegnano lunghe fasce argentate nel verde dei monti. Le soste sono poche e veloci, giusto per consumare uno  spuntino a base di cibo in scatola e caffè conservato del termos. I nostri accompagnatori assaggiano le nostre colazioni, ma poi preferiscono tirare fuori dai loro fagotti ingera e uòt, il cibo nazionale etiopico,che ci fa pentire di non averne fatta anche noi provvista. L’ingera è una specie di piadina che sembra gommapiuma, mentre l’uòt è uno spezzatino di carne piccantissimo. Il primo torrente che incontriamo è abbastanza turbolento, neppure da pensare di attraversarlo a piedi per il pericolo di scivolare, l’unica alternativa è rappresentata dal mulo sul quale salgo con una grande paura di perdere l’equilibrio e finire in acqua. L’esperienza è tutt’altro che spiacevole, tanto è vero che sia io che Alberto rimaniamo in groppa a questi graziosi e simpatici animali per proseguire il cammino, continuando a poi a salire e scendere lungo valli e monti, mai uguali, ma sempre ricchi di colori, di animali, di piante e di fiori diversi. Il muletto abissino, come anche il cavallo, si monta dalla destra, ed è per questo motivo che gli abissini portano la spada sulla destra. Il mulo non ha briglie, e ci si deve aggrappare alla criniera per rimanere in sella, mentre per farlo camminare si deve dire mech mech, per farlo fermare si dice coi.

Dopo diverse ore giungiamo a Ghich, la nostra prima tappa. Due dei nostri ci hanno preceduto e ci fanno trovare le tende  già montate in una radura ombreggiata da eriche giganti. Siamo a quota 3.600 ma si sta bene. Dal villaggio arriva una frotta di bambini che cominciano a ballare e cantare e gridano “caramella, caramella!”. Per fortuna ne ho portate parecchie e comincio a distribuirle. Dappertutto dove vai in Etiopia sei attorniata da questi deliziosi bambini sempre contenti e sorridenti. Ti circondano tutti felici in attesa di qualche soldino, di una biro per la scuola o di una caramella. Mi ricordo che una volta, vicino a Lalibelà, ce n’era uno che, nel gruppo, suonava il crar, la chitarra abissina senza tasti, e sono andati avanti per mezz’ora cantando stornelli.

Alle sette si cena con dell’ottima ingera e uòt che la nostra guida ha rimediato al villaggio, mentre il sole fa di tutto per rendere il tramonto tanto ricco di colori e di tonalità che nessuno di noi, stordito da tanto fulgore, riesce a dire una parola, neppure i nostri accompagnatori, di solito molto loquaci.

La notte tropicale cala, come al solito, improvvisa e ci coglie ancora con l’ingera in mano e solo il fanùs riesce a rischiarare il nostro modesto campo. Si potrebbe rimanere tutta la notte a rimirare quell’assurdo ed alieno firmamento così zeppo di astri luminosi da non avere uguali, mentre la Croce del Sud, bassa all’orizzonte, porta alla mente storie fantastiche e lontane. Ma la stanchezza prende pian piano il sopravvento e domani ci aspetta un’altra giornata dura.

Il Semièn è abitato da popolazioni amara.

Seconda tappa: Escursione all'Emietgogò. L’indomani partiamo di buon ora per una tappa improvvisata e particolare: un’escursione di quattro ore al monte Emiètgogò. Ieri ci ha impressionato la sua visione imponente da lontano, i suoi colori assurdi, le macchie di verde dei suoi boschi. Abbiamo intuito  che di lassù si possa godere  di un panorama stupendo sui monti di Hauazà e di tutto il vasto bassopiano che si estende a nord del Semièn. Ci portiamo dietro solo Bezà, lo scout Sandèk armato di fucile, e l’addetto ai muli che controlla uno dei suoi animali carico dei nostri zaini. Gli altri li lasciamo al campo a riposare. Dopo una salita iniziale piuttosto ripida, il sentiero attraversa un ampio pianoro leggermente ondulato ricoperto da ciuffi d’erba alternati a prato erboso e terreno bruno intagliato dalla pioggia. Piccoli rigagnoli formano qualche zona paludosa. Diverse mucche pascolano tra lobelie giganti. Il paesaggio è veramente suggestivo. Le mucche abissine appartengono ad una razza particolare chiamata zebù, e sono caratterizzate da una specie di gobba che hanno sulla schiena.

Le lobelie giganti assomigliano a delle palmette alte fino a cinque metri. Come le agavi, fioriscono una volta sola e poi muoiono. Il fiore è un lungo pennacchio verticale pieno di fiorellini viola

Poi succede quello che nessuno di noi si aspetta ci accada nel centro dell’Africa, lontano chilometri e chilometri dalla prima città, distanti giornate di cammino dalla prima pista praticabile: da dietro uno spuntone di roccia appare una coppia di bianchi che marciano spediti verso di noi, seguiti da tre etiopici, due armati di fucile. Non sbagli se tenti di indovinare, tanto sono sempre italiani o americani quelli che ti capita di incontrare nei posti più impossibili. Questi due sono americani, stanno anche loro facendo una camminata su quelle montagne, ma non saliranno sul Ras Dasciàn, sono qui per fotografare le gelada.

A metà giornata la vetta del Emietgofò è davanti a noi; tra un mare di nubi si intravede ogni tanto una vista grandiosa che spazia su strapiombi, valli misteriose e catene di montagne che si susseguono su diverse file. Purtroppo nubi bianche e spedite continuano a salire dal fondo valle ostacolando la visione e noi, annichiliti, pazientemente aspettiamo che succeda qualche miracolo della natura.

Sull’Emietgogò, a 3900 metri, aspettando di vedere il panorama.

Fa sempre più freddo in questa immobilità e dopo tre ora di attesa di una schiarita anche Alberto si convince che è meglio tornare. Cominciamo, quindi, a scendere, mentre le nubi ci inseguono. A circa metà strada incontriamo un branco di un centinaio di gelada che riusciamo a riprendere agevolmente, mentre sentiamo tuoni in lontananza.

 

Un branco di un centinaio di gelada pascola fra le lobelie.

Torniamo al campo un po’ tristi per non essere riusciti a goderci il panorama dalla cima dell’Emietgogò, ma il Semien di cime ne ha tante e presto il solito uòt (solito, ma mai sdegnato) preparato dai ragazzi ci rimette in sesto il morale ed in pace con il mondo che quasi intenerito dalle nostre proposte di tregua ci regala la visione inaspettata di un firmamento limpidissimo e mai come quella notte ripieno di stelle. Intorno a noi i rumori della notte tropicale: il brontolio lontano del leopardo al quale risponde la risata di una iena un po’ troppo vicina, il canto continuo dei grilli al quale fa eco il verso sgraziato di una civetta. Ma poi improvvisamente i rumori diventano tanti, ma non troppi e neppure un misterioso tamburellare riesce a toglierci quel senso di tranquillità che presto ci induce un sonno tranquillo e ristoratore.

Terza tappa: Ghich – Cennèk. La terza tappa, di sette ore, ci porterà a Cennèk, quota 3.600. L’alba ci trova già in cammino. Ci siamo sempre chiesti se qua sono più belle le albe o i tramonti e non siamo mai riusciti a dare una risposta, di una cosa sola siamo certi, non ce ne è mai uno uguale. Non siamo scrittori e non riusciremmo a descriverli: ma ci piace la fotografia e veniamo presi da una smania di scattare che solo la consapevolezza di non avere alcuna possibilità di rifornirci di pellicole in quei luoghi ci induce a resistere alla tentazione di andare avanti nelle riprese, convinti che nessun’altro scenario potrà mai apparirci più bello.

Oggi ci tocca guadare dei torrenti ampi, dove il mulo non può esserci d’aiuto. Ci diamo una mano con i ragazzi con una sola determinazione: le pellicole e le macchine fotografiche non si devono ammollare. 

Risaliamo un fianco di una stretta valle scoviamo un sentiero appena accennato che procede stretto tra campi di grano e di avena. Mi fermo un attimo per riprendere il panorama, perdo le tracce e devo farmi largo tra il grano quasi maturo per ritrovare la pista. Qui gli abissini coltivano il grano fino a 4.000 metri.

Da destra e sinistra ci giungono di continuo i salàm, (salve, salute, pace) dei pastorelli che curano greggi di pecore e mandrie di mucche e cavalli. Qualcuno più grandicello lancia il suo “Good morning! How are you?”   Anche qui, a 4000 metri, ogni tanto c’è una rustica scuola della quale approfitta solamente un terzo degli 8-9 figli di una coppia etiopica.

Anche oggi purtroppo dal fondo valle comincia a salire una nebbiolina che si trasforma presto in nebbia a volte molto fitta e fa freschino: peccato! Addio ai bei panorami... Superiamo un ultimo tratto di un sentiero che pare il greto ciottolato di un torrente melmoso per poi arrivare ad un pianoro costellato di lobelie ed eriche giganti. Dopo sette ore di cammino  giungiamo a Chennèk, quota 3.600. Quassù vi sono le abitazioni dei rangers, a forma di tucul, ma sono costruiti in pietra ed i tetti sono fatti con lamiere ondulate pitturate di verde.

Verdi vallate ricoperte di eriche arboree e lobelie giganti.

Penso che Cennèk sia uno dei più spettacolari luoghi al mondo per accampare. Piantiamo la tenda vicino all’orlo di un precipizio da dove vediamo il profilo dell’Emietgogò e il paesaggio di guglie e pinnacoli che si stende verso nord.

 

L’Emietgogò visto da Cennèk.
 

Sopra l’abisso volteggiavano, apparentemente senza sforzo, alcuni avvoltoi egiziani e un gipeto, o avvoltoio barbuto. Qui assistemmo ad una di quelle scene che i birdwachers pagherebbero un viaggio per vedere: Il gipeto si avventò su una piccola preda, che non riuscimmo a distinguere, forse una tartarughina, poi volò in alto e la lasciò cadere su una roccia per fracassarle il guscio; ripeté poi la cosa altre volte finché il guscio fu completamente fracassato per poterla divorare. Questi uccelli sono chiamati Legermeyer, che significa rompi ossa. Il Semièn deve essere un paradiso per gli amanti degli uccelli: dicono che qui ve ne siano 150 specie.

La nebbia questa sera è tornata ad avvolgerci nel suo manto freddo tanto da chiederci se si saranno asciugati i sacchi a pelo che abbiamo steso la mattina. Dopo aver cenato ci rifugiamo nella tenda dove fa un po’ più caldo ed io ne approfitto per scrivere.

Quarta tappa: Cennèk – Ambicò. Non abbiamo riposato bene perché ha piovuto tutta la notte. Pioviggina ancora quando decidiamo, senza esitazioni, di ripartire per la prevista tappa della giornata: sette ore di marcia per salire di 600 metri, raggiungere i 4200 di quota per scavalcare il monte Buahìt, ridiscendere quindi di 1.500 per arrivare al torrente Mesciahà, e infine un’altra salita di 500 metri per arrivare al villaggio di Ambicò, dove abbiamo deciso di impiantare il nostro modesto campo base per affrontare il Ras Dasciàn. Giornata grigia e tanto bagnata. Di interessante l’incontro, sul fondo di un burrone, con alcuni stambecchi ualia. Questi animali appartengono alla stessa specie dello stambecco italiano, al quale sono simili sia per forma che per dimensione. Hanno il corpo tozzo e due possenti corna curvate all’indietro che possono superare il metro di lunghezza.  

Un gruppo di stambecchi ualia.

Più volte incontriamo alcuni piccoli pastori con le loro greggi di pecore; nessuno sembra avere più di dieci anni. Ci fermiamo a scambiare qualche parola con loro, parlano volentieri senza togliersi di dosso le pesanti     coperte e berretti di lana grezza. Fra le altre cose veniamo a sapere che lavorano dodici ore al giorno, sette giorni alla settimana.

La discesa dal Buahìt verso il Mesciahà, 1500 metri più in basso.
 

 

Pastorelli amara.

Scendiamo e saliamo su sentieri molto scivolosi. La camminata non è difficile, ma è faticosa. Per fortuna il tratto sassoso dell’alto Buahìt finisce presto ed ora camminiamo agevolmente fra prati e campi di grano, dentro valli dalle spettacolari fioriture di aloe. Dall’alto un bambino in piedi davanti al suo tucul ci saluta calorosamente, invitandoci ad avvicinarci.

Arriviamo al Mesciahà, un torrente impetuoso che quando piove può raggiungere i due metri d’acqua, e lo guadiamo a dorso di mulo, declinando la proposta di Sandèk di attraversarlo sulle sue spalle. Arriviamo finalmente ad Ambicò, un paesino di poche capanne, base di partenza per il Ras Dasciàn.  

Cennèk, punto di partenza per la salita al Ras Dasciàn.

Quinta tappa: Ras Dasciàn. Siamo accampati vicino alla chiesa del Salvatore. Ha piovuto quasi tutta la notte e dal fondo valle si sente il rombo del Mesciahà che si è gonfiato. La mattina presto partiamo per il Ras Dasciàn, quinta tappa del nostro viaggio. Sono almeno otto ore di marcia, salvo imprevisti, che possono essere costituiti da pioggia o grandine. Vengono con noi la guida Bezà, il ranger Sandèk e la mula Mucìt, che verrà utilizzata in caso di emergenza. Il sentiero, che comincia a salire tra campi coltivati a grano e fave, è semplicemente pazzesco: il fango si attacca alla suola degli scarponi e si scivola maledettamente. Più avanti il fondo sassoso e roccioso facilita un po’ il cammino. Salendo ulteriormente, la pista procede per profonde scanalature che attraversano pascoli con ciuffi di kniphophie e tantissime lobelie. Dovunque si incontrano pastori, o seduti o in cammino. Il sole va e viene, mentre cominciano a salire nubi dal fondo valle.

 

A mezzogiorno giungiamo sul pianoro sottostante la cima del Ras Dasciàn, da cui spira un vento molto freddo. Praterie paludose cedono il posto a sfasciumi e sassi attraversati da rigagnoli d’acqua. Accanto alle lobelie occhieggiano minuscoli fiori di qualche elicriso. Dopo cinque ore di marcia superiamo l’ultimo tratto roccioso, non molto difficile, e arriviamo in vetta. E’ nuvolo, e non posso godere il panorama che avrei voluto, ma ho la stessa sensazione di quando si arriva in cima ad una montagna importante. E’ la mia quarta cima africana, e mi sento felice.

Sulla vetta del Ras Dasciàn con Sandèk e Beza.

Ad indicare la cima c’è un mucchietto di sassi a cui Bezà ne aggiunge due, uno per lui ed uno a forma di stivale per me, seguendo la consuetudine locale. Vorrei trattenermi un po’ nella speranza di qualche squarcio tra le nubi, ma Sandèk dice che è meglio scendere subito perché potrebbe piovere.

Impieghiamo tre ore  a scendere e, arrivati al campo, abbiamo la sorpresa di un’accoglienza rumorosa, con canti, balli ed un mazzo di fiori per me e Bezà, felicissimo pure lui di esser salito per la prima volta sul monte più alto d’Etiopia. Fra andata e ritorno abbiamo impiegato otto ore.

Foto ricordo.

Sesta tappa: Ambicò – Cennek. L’indomani ci alziamo di buon mattino e ci prepariamo a tornare. Anche questa notte ha piovuto. Giungiamo al fondovalle e troviamo il Mesciahà molto vorticoso e dobbiamo attraversarlo a dorso di mulo, anche se con un po’ di fifa... Fotografiamo le montagne innevate ed attacchiamo la salita della valle opposta. C’è un bel sole e fa sempre più caldo.

Attraversiamo il Mesciahà a dorso di mulo.
 

Con la pioggia le cime del Semièn si coprono di neve.

La salita a mezzacosta si trasforma in ripida erta ad ogni attraversamento di torrente. Questa, da Ambicò a Cennèk, è la tappa più dura, con la salita al Buahìt molto ripida e faticosa. A metà pomeriggio tutti un po’ stanchi ed affamati giungiamo al campo.

Settima tappa: Cennèk – Sanca Ber: Oggi è l’ultima tappa, una cavalcata di 27 km fino a Sanca Ber. Percorriamo la valle del fiume Giona, cosparsa di lobelie, eriche ed iperici giganti e, più avanti, ricoperta da campi di grano.

Facciamo a cavallo l’ultima tappa di 27 km.

Il fondo della pista non è sempre agevole a causa delle piogge dei giorni scorsi. Passanti ci salutano affabilmente ed un donna dal fondo di un campo corre al margine della pista per offrire da una latta arrugginita un po’ di talla  al mulattiere.  A mezzogiorno comincia nuovamente a piovere, e la pista diventa a tratti un lago o un torrente. Giungiamo  a Sanca Ber dopo due ore di pioggia fradici ed intirizziti; ci rifugiamo sotto una specie di tucul-gazebo e tutti si danno da fare per accendere un po’ di fuoco con la legna bagnata. Ci affumichiamo, ma cominciamo a riscaldarci ed ad asciugarci, mentre un caldo tè ci ristora.

E’ stata un’esperienza emozionante: gli aiutanti etiopici, i muli, i cavalli, il paesaggio, la pioggia, tutto ha reso questa camminata sul Semièn una delle mie avventure più belle. Dopo essere stata sui tre monti più alti dell’Africa, ho visto anche il Ras Dasciàn. L’Etiopia, con le sue bellezze, non finisce mai di stupire e di farsi amare. Domani bisogna tornare a casa. Peccato!

I monti di Hauazà visti da Adi Arcai.
 

 

 
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