La coda del diavolo

Nicky Di Paolo, 19-11-07
 

In tutto il Corno d’Africa, nonostante l’epoca coloniale europea e la successiva vasta campagna didattica promossa dai governanti eritrei ed etiopici che hanno in sostanza debellato l’analfabetismo in quella parte del mondo, ancora sono ben vive le superstizioni e sono sempre presenti tipici personaggi che, a sentir loro, di diavoli e di magia se ne intendono. Vestono ancora con abiti tradizionali e sono molto abili nel preparare lunghe strisce di pergamena dove scrivono sia preghiere, sia formule ritenute magiche; queste ultime di solito vengono tramandate da padre in figlio e sono quindi vecchie di centinaia d’anni e custodite gelosamente. Le striscioline, scritte in caratteri gheez frammezzati da arabeschi, da figure d’angeli, demoni, animali, santi, astri, sono arrotolate con una fine tecnica in modo da renderle molto piccole per poi essere racchiuse in un minuscolo contenitore di pelle di pecora di solito pitturato in rosso e che può essere portato appeso al collo con un matèb oppure legato al braccio. Questi amuleti si possono acquistare già pronti, ma sono assai più efficaci se preparati appositamente tenendo conto del soggetto che fa la richiesta e le sue motivazioni, in quanto ogni male o maleficio necessita di specifici talismani.

Circolano un’infinità di leggende su questi soggetti, e alcune di queste sono degne di essere ricordate.

Si racconta in Eritrea che un facoltoso mercante possedeva uno schiavo straordinario. Barrù era giovane, sano, di bella presenza e  capace di fare qualsiasi cosa. Si costruiva da solo gli attrezzi per erigere una casa, per preparare i mobili, per arare i campi, per allestire l’armamentario della cucina, per recintare un’abudò, per tosare le pecore, insomma era un uomo impagabile. Aveva un solo difetto: sembrava colpito da una maledizione, perché bastava la sua presenza per creare dissapori fra le persone che gli stavano intorno, mentre  lui sembrava bearsi di questa capacità. Un suo gesto, una sua parola davano sempre luogo a litigi che  spesso richiedevano l’intervento di un giudice il quale, ogni qual volta riusciva a risalire al responsabile, costringeva il padrone, che era legalmente garante del proprio servo, a risarcire con denaro il danno causato.

Dopo aver fatto di tutto per cercare di correggere questo inconveniente che purtroppo adombrava  tutto ciò che di buono Barrù era capace di produrre, il mercante giunse alla determinazione di cedere lo schiavo che gli rendeva  la vita molto difficile.

Un capo di un villaggio vicino, che conosceva sia le qualità che il difetto del servo in vendita, si offrì di acquistarlo, certo di riuscire, con la sua intelligenza, a sfruttare la bravura dello schiavo e nello stesso tempo a neutralizzare la sua brutta tendenza di seminare zizzania.

Il prezzo da pagare fu equo, considerando il carattere dell’uomo, ma il nuovo proprietario si diede subito da fare per mettere il suo acquisto in grado di non nuocere; a tale scopo riunì  tutti gli abitanti del villaggio e li mise in guardia dal non prestare ascolto a tutto ciò che Barrù potesse raccontare in quanto, a causa di un diavolo che viveva nel suo corpo, era sempre pronto a creare situazioni litigiose fra chiunque gli prestasse orecchio.

Barrù, coma abbiamo accennato, era perfettamente cosciente di causare scompiglio e litigi, ma, lungi da provarne rimorso, godeva delle sue malefatte che appagavano il suo animo sempre pronto a seminare discordia. Sapeva bene ciò che gli avevano spiegato tanti debterà: dentro di sé abitava un ganièn, uno dei tre diavoli esistenti; non poteva infatti trattarsi di un saitàn in quanto questi demoni erano relegati all’inferno e mai venivano sulla terra e neppure di un ghinnì, che vivevano nelle acque profonde dei laghi e dei fiumi e solo raramente infastidivano gli uomini.

Era quindi un ganièn che possedeva il giovane schiavo e fino allora nulla avevano ottenuto i debterà, sollecitati dal primo padrone, nei tentativi di fargli abbandonare l’animo di Barrù.

Ad ogni modo l’espediente del nuovo proprietario sembrava funzionare: tutti i continui tentativi di creare discordie fallivano perché gli abitanti del villaggio rispondevano con lazzi ed insulti alle continue provocazioni, mentre la sua fine e impareggiabile maestria nel lavoro destava ammirazione, e ciò che più conta fruttava al capo del villaggio notevoli guadagni.

Il ganièn però non si dava pace, lui si nutriva delle sofferenze degli uomini e, quando giunse la stagione delle piogge, suggerì a Barrù un brutto tranello da giocare al suo padrone.

-  Guaitana,  da qualche giorno fuori fa molto freddo e l’umidità entra nelle ossa: ti prego, fammi dormire in un cantuccio della tua casa. Altrimenti c’è il pericolo che prenda un malanno ed allora non potrei più lavorare. -

-  Va bene. - Acconsentì il capo pensando che non sarebbe mai riuscito a farlo cascare nel tranello della discordia e paventando una sua possibile malattia lasciandolo fuori in balia delle intemperie.

Lo schiavo stette per alcuni giorni tranquillo e si rese utile dentro la dimora del padrone aiutando la moglie nei lavori di cucina, dimostrando anche in quel contesto la sua innegabile bravura.

Una sera i padroni si recarono a cena in casa di amici che abitavano nei pressi.  Come al solito rientrarono tardi ed alticci per la notevole quantità di mies  e sua che erano abituati a bere in quelle occasioni e non si resero conto che Barrù aveva bagnato con la propria urina il vello di montone dove erano soliti giacere.

Solo al mattino si accorsero dell’umido e dell’odore sgradevole che emanava dal loro talamo e l’uomo pensò subito che la moglie, anche se ciò non era mai successo prima in tanti anni di matrimonio, vuoi per l’alcol bevuto in eccesso, vuoi per l’età che cominciava ad essere matura, avesse inconsapevolmente ignorato il naturale stimolo che normalmente, al bisogno, la costringeva a levarsi e a uscire per urinare. Decise però di far finta di nulla non volendo mettere in imbarazzo la consorte.

Più o meno gli stessi pensieri attraversarono la mente della donna, che addebitò al marito di aver bagnato il letto, ma anche lei, optando per il silenzio, lesta portò fuori il vello, lo lavò e lo pose ad asciugare al sole.

Era il tempo della mietitura e come era abitudine del villaggio, tutti gli uomini validi si presentarono al capo e, sotto la sua direzione, si recarono ai campi per allestire i fasci di grano, mentre le donne, coordinate dalla sua consorte, preparavano il pasto per tutti i lavoratori che sarebbero tornati stanchi ed affamati. La mietitura era un’occasione per ritrovarsi tutti assieme e per scambiarsi notizie, opinioni, chiacchiericci.  

Barrù, da buono schiavo, con due muletti, faceva la spola fra i campi e la casa  del suo padrone portando agli uomini gombò pieni d’acqua e qualcuno anche di sua e tornando indietro carico di fasci di spighe mature.

A differenza del solito però, non parlava con nessuno e il suo viso era imbronciato, tanto che tutte le donne se ne resero conto e si chiesero il perché. Anche la moglie del capo notò lo strano e insolito atteggiamento del suo servo. Lo chiamò vicino a sé e gli chiese di spiegargli cosa lo turbava. Barrù  finse di ignorare il suo invito a confidarsi, certo che ciò avrebbe aumentato ancora di più la curiosità della padrona. Lei di rimando fece il gioco dello schiavo implorandolo di aprirsi con lei.

- Ho troppo rispetto nei tuoi riguardi e non vorrei mai farti soffrire, ma tuo marito è da stamattina che se la ride con i suoi compaesani alle tue spalle. Ha raccontato loro che stanotte hai urinato nel letto senza rendertene conto; ciò ha suscitato in tutti una grande ilarità, tanto che ora ti chiamano con nomignoli offensivi e questo mi causa molto dolore in quanto io amo la mia signora. -

La povera donna fu presa dalla disperazione. Mai avrebbe pensato che il marito potesse prendersi gioco di lei addossandole uno spiacevole evento che invece era capitato a lui. Alla disperazione seguì la rabbia e, rimandate alle proprie case tutte le donne, spense il fuoco nella cucina e si preparò per affrontare il marito al suo ritorno.

Intanto Barrù  era tornato ai campi, ma questa volta con estrema lentezza, tanto che trovò il padrone tutto agitato perché gli uomini avevano sete.

- Ho fatto tardi perché le donne invece di riempire i gombò erano intorno a vostra moglie che raccontava loro come stanotte avete bagnato il letto senza accorgervene e ridevano tutte a crepapelle. Ho dovuto riempire i recipienti da solo, per questo ho tardato, ma soffro per voi perché vi sono molto affezionato. -

Il capo del villaggio, uomo di solito tranquillo e sereno, alle parole di Barrù divenne livido dalla rabbia e non gli passò neppure lontanamente per il capo una delle tante esortazioni che aveva fatto e continuava a fare a tutti i suoi compaesani di guardarsi dalle affermazioni del suo servo. Abbandonò gli uomini ed il loro lavoro per correre a casa dove trovò la moglie ad attenderlo: questa lo ricoprì d’insulti e lui fece altrettanto senza cercare di darsi una reciproca spiegazione del loro contegno.

Ben presto l’ira, che aumentava di momento in momento, fece in modo che dalle parole passassero ai fatti: lei prese un coltello e cercò di trafiggerlo, lui si difese con un nodoso bastone colpendo alla ceca e cercando di evitare i fendenti. Un urlo più  forte di lei pose fine istantaneamente al violento alterco che lasciò il marito con il bastone ancora alzato e la moglie esangue in una pozza di sangue con il cranio fracassato da un colpo ricevuto.

Il capo del villaggio, terrorizzato per l’accaduto, pregò Barrù di aiutarlo a fasciare la testa della moglie per nascondere la ferita; avvolse poi la morta in una futa ed inviò il servo ad avvisare i parenti di lei che la loro congiunta era deceduta per un improvviso malore.

Lo schiavo aiutò il padrone nel preparare la donna e gli rimase affettuosamente vicino ma, quando andò ad avvisare i parenti del decesso, non mancò di instillare in loro un dubbio, raccontando di un vivace alterco scoppiato fra i due coniugi poco prima della morte di lei.

La morta era figlia di un ricco mercante di bestiame che abitava in un paese vicino. Preoccupato dalle insinuazioni di Barrù, chiamò tutti i suoi pastori e i suoi schiavi e lesti si recarono a visitare la defunta.

Vedendola tutta fasciata e avvolta nella futa, il  padre chiese al marito di liberare il corpo da quei veli perché voleva vedere per l’ultima volta il volto della figlia prima di darle sepoltura. Tutte le scuse che il marito riuscì ad escogitare non fecero che aumentare il turbamento del padre, che continuò ad insistere a voler vedere quel viso tanto amato. La ferma opposizione del capo del villaggio fece presto degenerare in lite la discussione e non passò molto tempo che alle ingiurie e alle urla si sostituirono prima le mani e poi tutte le armi che erano  a disposizione dando vita ad una vera e propria battaglia fra gli uomini del villaggio accorsi in aiuto del loro capo e quelli che erano venuti assieme al padre della defunta. Prima che giungesse dalla vicina chiesa il clero con i grandi mascàl e i caberò a placare la rissa con la minaccia di scomuniche e dannazioni, il suolo dell’abudò del capo del villaggio era cosparso di morti e feriti e presto nell’aria si diffusero i pianti e le urla delle donne che si stavano rendendo conto della grande disgrazia che si era abbattuta nel villaggio. Fu uno dei cascì che notò lo stridente contrasto di un uomo che rideva a crepapelle sembrando godersi la terribile scena; riconosciuto Barrù, gli venne subito il sospetto che il terribile schiavo potesse essere in qualche modo coinvolto nell’accaduto.

Alcuni secchi d’acqua gettati sull’uomo che continuava con la sua irrefrenabile ilarità a ghignazzare e a ridere, incurante di quella tragica visione di morte e sofferenza, lo calmarono quel poco indispensabile a rispondere alle domande che il cascì gli rivolgeva. Barrù godeva nel raccontare tutta la verità, mentre il prete, alzato verso il cielo il mascàl invocava Dio affinché liberasse quell’uomo dal diavolo che lo aveva guidato in quella turpe azione.

Le donne e i superstiti non attesero che le preghiere del cascì giungessero al cielo ma, afferrato lo schiavo, lo trasportarono urlando scongiuri, suonando tutti gli strumenti disponibili e nel contempo sparando in aria centinaia di colpi di fucile, fino ad un precipizio poco distante dal villaggio e senza indugi lo gettarono giù maledicendolo e implorando Dio che con la morte di Barrù scomparisse anche quel terribile ganièn che viveva dentro di lui. Non si sa se il clamore della folla, dei tamburi e degli spari riuscì a spaventare e a mettere in fuga il dispettoso demone, ma tutto quel frastuono  non riuscì a coprire l’agghiacciante risata che continuava a uscire dalla gola spalancata dello schiavo dannato, mentre precipitava giù verso il fondo del burrone.

Fotografia di Alberto Vascon

Saitàn tormenta l’anima di un peccatore
 
 
 

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