Una leggenda agau: il Gheralta e il Sacro Graal |
Gian Emilio Belloni, 14-11-07 |
Nel cortile della chiesa, sul lato destro, a ridosso delle pietre sonore, si ergeva possente un sicomoro secolare dalla chioma folta e di ampio raggio che estendeva la sua ombra per decine di metri, usato dai fedeli per proteggersi nelle torride giornate estive. Il fusto, alto una trentina di metri, era coronato da grossi rami coperti da grandi foglie ovali di un colore verde scuro frammiste ad abbondanti grappoli di gustosi frutti rossi. Da sempre questo maestoso sicomoro aveva ospitato tra i suoi rami miriadi di piccioni verdi dal petto giallo, i bellissimi pappagalli e tortore abissine, tutti volatili attratti dai frutti di questo magnifico albero, tanto utile anche agli uomini per preparare unguenti e sciroppi e citato pure nel Vangelo secondo Luca. Ai piedi di quest’albero spesso si sedeva un anziano signore dalla barba e dai capelli bianchi come lo sciamma che indossava. Con sé portava sempre il suo masinqò e una sacca di tessuto di cotone ove custodiva un vecchio tomo nel quale aveva da sempre annotato, in lingua gheez, gli eventi più importanti vissuti direttamente o raccontatigli da anziani che aveva incontrato nella sua lunga vita passata a girovagare per tutta l’Abissinia; molte pagine del suo tomo erano fitte di disegni e schizzi di chiese, caverne e piantine topografiche. L’altro libro da cui non si separava mai era la sua Bibbia, scritta in caratteri arabi e apparentemente portata in Abissinia da un abuna agau che aveva vissuto per anni in Terra Santa, a Gerusalemme, a cavallo tra il X e l’XI secolo. Ghebremariam , questo il suo nome, era nato nel Lasta, in un piccolo villaggio ai piedi della grande montagna, l’Abuna Yosef, nelle vicinanze della chiesa di Medhanie Alem, dedicata al Salvatore del Mondo. La sua cultura era vastissima ed era in grado in parlare e scrivere in sei lingue, tra cui il latino e il greco. I giovanetti che uscivano dalla scuola non vedevano l’ora di potersi sedere sotto il sicomoro, intorno all’anziano signore, e ascoltare quell’uomo che li incantava con le sue storie e, infatti, la prima cosa che facevano al termine dello studio, era quella di correre nel cortile della chiesetta e verificare che Ghebremariam fosse là . Quel giorno lo trovarono al solito posto ma in preghiera e, quando egli si accorse della loro presenza, li invitò a rivolgere un ringraziamento alla Vergine Maria e loro, composti, recitarono in coro:
Al termine della preghiera, dopo aver ripetuto “Besiyt Anti ” l’agau sorrise loro e rimase in silenzio. Il più piccolo dei bambini, quello di nome Lakedinghìl, disse: ”Memher, mia nonna, nativa di Addigrat, mi parla sempre delle chiese nascoste nelle montagne del Tigrai in località Endertà. Ti prego, negherèn, negherèn “ L‘anziano iniziò il suo racconto: “Come voi già sapete, la nostra terra è stata benedetta dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, e da sempre è protetta dalla Madre Mariam, e fu scritto: l’Etiopia tenderà le mani a Dio. Da qui è partita l’umanità, qui, tra le nostre montagne, i nostri fiumi e i nostri laghi, vi era l’Eden, quindi da sempre noi abbiamo la grande responsabilità di mantenere vivo il Credo in Dio. Molte civiltà e religioni sono convinte, e noi Abissini più di loro, che tra le catene montuose della nostra terra vi sia la Montagna della Salvezza, la Montagna dei Santi, conosciuta aldilà del Mar Rosso come Jabalu al Awaliya o anche Ardu al-haqiqah (Terra della Realtà). L’Abissinia è il centro della Terra ove cadde dal cielo la Pietra Sacra che divenne parte delle nostre montagne. Noi discendiamo da Bilbis, regina di Saba, e da Salomone, così come è pure scritto nel Kebra Neghèst, e siamo stati prescelti per essere i guardiani del Tabòt, l’Arca dell’Alleanza - che giunse da Gerusalemme - e proteggerla da atei e briganti, e per questo l’abbiamo nascosta da occhi indiscreti tra le nostre alte montagne. Per ringraziane il Signore Dio Nostro, noi Abissini abbiamo costruito molte chiese nella roccia del Lasta e non solo nel Lasta. Si, tua nonna ha ragione, anche nel Tigrai ve ne sono tantissime, anche nascoste nelle caverne. Le più grandi sono quelle di Qorqòr e Debra Tsion, alcune però sono importantissime e ancora nascoste agli occhi dell’uomo.
Ma lasciatemi raccontare con ordine. Dovete sapere, cari ragazzi, che nel lontano 1187 Gerusalemme venne occupata dai musulmani guidati da Salah al-Din, e i cavalieri cristiani quasi tutti uccisi. I pochi che si salvarono si dispersero in Terra Santa, eccezione di tre che partendo da Aqaba, su di una murkaba, attraversarono il Mar Rosso e, seguendo la costa africana per evitare i corsari arabi che infestavano i mari, giunsero su una spiaggia dell’Abissinia, nei pressi di Arafali. Portavano due casse di legno che avrebbero difeso sino alla morte pur di non farle cadere in mani nemiche. Quando furono certi di aver posto piede sulla terra cristiana dell’Abissinia, la baciarono e celebrarono la Santa Messa, poi indossarono nuovamente il loro abito bianco, il loro mantello, mettendo ben in evidenza la grande croce rossa a otto punte di cui il loro mantello era fregiato, e la loro appartenenza ai Cavalieri Templari. I bimbi chiesero di raffigurare quella croce, di disegnarla per loro. L’agau indicò il tetto della chiesa che aveva alle sue spalle e disse: ”Esattamente come quella!” e così facendo la disegnò anche sul terreno. Il motto dei Cavalieri Templari era: “Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam”; per un momento i bambini sembrarono confusi nel sentir pronunciare una frase in una lingua a loro sconosciuta e quindi Ghebremariam rimediò subito dicendo loro che era latino, la lingua dei cristiani cattolici e che voleva dire "Non a noi, Signore, non a noi, ma al Tuo nome da gloria". Durante i l loro viaggio verso Addigrat ricevettero aiuto da tutte le popolazioni incontrate, sia nel bassopiano e sia tra le montagne. Il percorso che seguirono era segnato in una mappa già in loro possesso, mappa tracciata, molto probabilmente, da altri Templari che avevano in precedenza viaggiato in l’Abissinia.
Giunti che furono ad Addigrat, contattate le autorità locali, chiesero il permesso di accamparsi ai piedi dell’amba Seneitì. Da qui, ogni giorno, aiutati da alcuni qashì locali, partivano in esplorazione arrampicandosi su ogni torrione della zona del Gheralta alla ricerca di una caverna che i tre Templari chiamavano Α Ω.
Il Venerdì Santo del 1190, tre anni dopo la presa di Gerusalemme da parte delle orde islamiche, i tre Cavalieri Templari, aiutati dai Monaci e dai Credenti Abissini, trovarono la caverna A Ω. Questa era vastissima e assai profonda, e fu riconosciuta perché al suo ingresso, sulla parete rivolta ad oriente, incisa nella roccia vi era un’enorme croce a otto punte e una lastra di granito sulla quale vi era scritto: Degghe Salàm (cortile della Pace) [1]. All’interno, circa cento passi dall’ingresso, dal tufo della montagna era stata ricavata una pavimentazione e su di essa si ergeva una croce monolitica [2] simile a quella esistente nelle vicinanze del Monte Tabor, vicino al Giordano, fiume ove Gesù ricevette il Battesimo. Con l’aiuto dei qashì i tre Templari scavarono un pozzo e un corridoio posto sotto la caverna A Ω [3].
Lo scavo terminò il Venerdi Santo del 1197 e, nello stesso giorno, i tre Cavalieri e tre Abuna trasportarono le due casse portate da Gerusalemme e per tutto il giorno intonarono il canto:
Depositate le due casse, iniziarono a bloccare il corridoio e il pozzo rimanendo essi stessi all’interno della caverna. Alla fine del lavoro stettero in preghiera e venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva sacrificare la Pasqua, e lessero: “Gesù mandò Pietro e Giovanni, dicendo: Andate a prepararci la cena pasquale, affinché la mangiamo… Poi prese del pane, rese grazie e lo ruppe, e lo diede loro dicendo: Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi.” I sei uomini richiusero i loro breviari depositandoli al piede della croce ed inginocchiandosi a terra ringraziarono ancora il Signore per aver permesso loro di aver posto al sicuro, nel cuore delle montagne abissine, il Sacro Graal. |