Ras Alula |
Nicky Di Paolo e Alberto Vascon Giugno 2009
Per chi non ha mai sentito nominare Ras Alula, tanto per dare un’idea, possiamo paragonare la fama che questo eroe africano possiede in Africa a quella che Giuseppe Garibaldi gode nel mondo occidentale, anche se esistono logicamente notevoli differenze storiografiche, culturali e comportamentali. Ma l’intraprendenza, il coraggio, l’amore per la patria e per l’avventura, la fama acquisita da vivo presso il popolo dell’acrocoro e diffusa rapidamente in tutto il mondo (il New York Times e l’Observer, tanto per citare due giornali, si interessarono più volte di lui) lo fanno assomigliare all’eroe italiano. Anche Alula, figlio di modesti contadini etiopici, fece tutto da solo, più che altro mostrandosi imbattibile e impareggiabile in battaglia, intelligente e sottilmente astuto in diplomazia, raccogliendo in tal modo la benevolenza di sovrani. Alula Inghidà nacque nel 1847 a Mennè nel Tigrai, stato settentrionale dell’Etiopia. Si sa poco dell’infanzia e dell’adolescenza di Alula; si può però immaginare la vita contadina della sua famiglia dedicata alla cura dei campi e alla pastorizia e solo marginalmente all’uso delle armi, sia per cacciare che per combattere; tutti gli uomini abili dovevano accorrere se il loro re li avesse chiamati alle armi e quindi era necessario essere sempre preparati a partire per una guerra. Sappiamo che fin da ragazzo era socievole, coraggioso, amichevole e affettuoso con un sottile senso dello humor. Non abbiamo notizie su come Alula impressionò favorevolmente la classe nobile del Tigrai, ma le sue doti lo portarono direttamente alla corte del re Giovanni che, una volta conosciutolo, lo volle subito al suo seguito. I cortigiani non videro di buon occhio tale rapida ascesa, ma Alula imparò presto a districarsi fra i raggiri e i tradimenti della nobiltà. Molto chiaro di carnagione, Alula era alto circa 170 cm, di corporatura robusta, ma i tratti del viso erano sottili, mentre lo sguardo che si posava sugli altri era sempre duro e penetrante. Era molto pio, anche se la sua religiosità appariva inquinata da tanta superstizione. Noto per la sua avarizia, gradiva molto i doni, ma non ne faceva mai. Insuperabile cavaliere, non esistevano avversari capaci di disarcionarlo. Non conosceva la fatica, si spostava velocemente a cavallo, macinando centinaia di chilometri al giorno. Praticamente Giovanni lo aveva preso con sé come guardia del corpo e lui era in continuo movimento per esplorare i luoghi dove era in arrivo l’imperatore ed eventualmente li bonificava dai pericoli. Gli abissini lo amavano e lo temevano. I cantori lo dipingevano così:
È leggero come un angelo È forte come un leone, È agile come un leopardo, È furbo come una volpe È saggio come Salomone È generoso come un re È il più valoroso di tutti i capi.
Ras Alula, Mantegazza 1896
Che fosse un uomo particolare lo dimostra anche il fatto che re Giovanni gli diede in moglie la figlia, preferendolo a tutta l’aristocrazia etiopica. Purtroppo la giovane sposa morì poco tempo dopo, ma gli lasciò una figlia che divenne nota per la sua gentilezza e bontà, unica persona capace di influenzare il padre nelle sue decisioni. Cerchiamo ora di ricordare nei dettagli le imprese di Ras Alula.
Nel settembre del 1875, quando ancora Massaua era sotto il controllo della Grande Porta, una compagnia di 2.000 soldati egiziani partì da Massaua con l’intenzione di ampliare i propri possedimenti; non trovando ressistenza, occupò l’Hamasièn e puntò verso Adua. Giovanni fece battere il chitèt (chiamata alle armi) e in due settimane mobilitò oltre 20.000 soldati. Il 16 novembre incontrò gli Egiziani a Gundèt vicino ad Adi Quala e li annientò. Uno dei suoi più valorosi generali era il nostro Alula Inghidà che aveva assunto il nome di battaglia Abba Neggà, Padre del Mattino. Gli egiziani non paghi della lezione subita, tornarono con 15.000 uomini e furono nuovamente battuti a Gura il 7 marzo 1876 da un esercito di 200.000 abissini in una battaglia che durò 3 giorni.
Chitèt serauìt, metà negarìt Raduna l'esercito, batti il tamburo Il negarìt era talmente pesante che doveva essere trasportato a dorso di mulo
Gura pose fine alle ambizioni egiziane sull’Etiopia, mentre ad Alula, per il coraggio dimostrato in battaglia, venne data in feudo tutta la regione a nord del Marèb fino ad Ailèt, chiamata allora Marèb Mellàsc. Continuando a rimanere nelle grazie di re Giovanni, nel 1879 Alula venne nominato governatore del Tigrai. Nel maggio 1881 la rivolta del mahdi cacciò gli anglo-egiziani dal Sudan, e ciò decretò la fine delle ambizioni anglo-egiziane anche sui mari. Nel 1884 l’aumento del potere del Mahdi suggerì agli inglesi di abbandonare le ultime posizioni nel Sudan e di disimpegnarsi dal Mar Rosso. Il 5 febbraio 1885 il colonnello Tancredi Saletta sbarcò a Massaua con 807 uomini e diede inizio all’avventura italiana sull’altipiano etiopico.
Il ghebbì di Ras Alula ad Asmara, Bent 1893
I dervisci del mahdi premevano sul confine orientale, Alula partì e li battè a Cufìt. Gli italiani intanto avevano sostituito gli egiziani a Sahatì, e per questa situazione Alula imprigionò alcuni italiani (il conte Salimbeni, il colonnello Piano con suo figlio undicenne Emanuele, il conte Savoiroux ed un servo) e attaccò di sua iniziativa il posto il 25 gennaio 1887 con 10.000 uomini, ma si dovette ritirare. Il giorno dopo decimò a Dogali in un’imboscata una colonna di 500 militari italiani che portavano soccorso alla guarnigione di Sahatì. La piazza dei Cinquecento a Roma, davanti alla stazione Termini, ricorda questa battaglia. Nel luglio del 1896, riferendosi a questi fatti, ras Alula ebbe a dire al tenente Mulazzani: Con voi ho fatto grande questione per un piccolo pezzo di terra, arido, sabbioso e di nessun valore. Per la liberazione del ricco conte Savoiroux, Alula pretese ed ottenne un riscatto di 60.000 lire. Gli italiani rioccupano Sahatì all’inizio del 1888 col gen. Alessandro Asinari di San Marzano, e Giovanni IV raduna subito 80.000 uomini che però non vengono a contatto con gli italiani. Dopo alcune settimane, Giovanni IV si ritira dalle sue posizioni per portarsi ai confini del Sudan, dove i dervisci minacciavano una invasione dell’Etiopia. Alula, dopo una marcia di oltre 500 km, affronta i dervisci a Debra Tabor ma poi si trova in difficoltà a Sabbarà Dildì, sul Nilo Azzurro. Giovanni corre in aiuto del suo fedele generale, poi con 80.000 uomini marciano verso Metemma, sul confine sudanese. Il 9 marzo 1889 affrontano i dervisci e, quando gli etiopici avevano già superato le mura esterne della fortezza, Giovanni viene ferito mortalmente. Due giorni dopo, prima di morire, nomina suo successore il figlio Mangascià. L’esercito etiopico si ritira e Alula ritorna nel Tigrai. Intanto, approfittando dell’assenza di Alula, gli italiani si spingono fino a Cheren ed Asmara, e schierano alcune truppe sulle rive del Marèb. Nel frattempo si erano svolte trattative fra l’Italia e Menelik, un altro ras pretendente al trono, nell’intento di trovare un alleato contro Giovanni. Antonelli aveva portato ad Addis Abeba una carovana di 580 cammelli con 5.000 fucili e cartucce. Menelik, che si era proclamato imperatore alla morte di Giovanni, con l’aiuto dell’Italia vuole battere Mangascià, anche lui proclamatosi imperatore. Il 2 maggio Menelik e Antonelli firmano il Trattato di Uccialli, la cui interpretazione porterà qualche anno dopo allo scontro frontale di Adua. Menelik si fa incoronare imperatore a Entotto il 3 novembre, poi marcia con un esercito di 130.000 uomini verso il Tigrai per sottomettere Mangascià. Il Tigrai è in subbuglio e Menelik cerca un compromesso con Mangascià. Mangascià si sottomette e riceve il governo del Tigrai meridionale, Menelik torna nello Scioa. Il 1° gennaio 1890 viene proclamata la Colonia Eritrea. Nei tre anni successivi Menelik allarga i confini dell’Etiopia fino a quelli che sono i confini attuali, ad esclusione del Tigrai settentrionale. Mentre gli italiani trattano con Menelik ma allo stesso tempo si preparano ad estendere il loro dominio verso sud, Menelik vuole avere le mani libere sul Tigrai e, undici giorni dopo aver ricevuto dall’Italia 2 milioni di cartucce, denuncia il Trattato di Uccialli, che stabiliva i confini della Colonia Eritrea non più a sud di Asmara. Lo scontro è inevitabile. Nei due anni successivi Menelik si prepara allo scontro, alla fine di ottobre del 1895 pone il suo quartier generale a Uorra Ilu vicino a Dessiè e manda avanti 30.000 uomini. Il 7 dicembre gli etiopici al comando di ras Maconnen, padre del futuro Hailè Selassiè, annientano i 2000 uomini di Toselli sull’Amba Alagi. Alula si trova nel frattempo con l’esercito di Maconnen. Intanto a Macallè il Maggiore Galliano con 1400 soldati rinforza il forte in attesa dell’attacco scioano. Maconnen assedia il forte e alla fine di dicembre arriva anche Menelik. Ora gli abissini sono 100.000. Dopo quattro giorni di attacchi furiosi e 10 di assedio, e dopo alcune trattative, a Galliano viene concesso di allontanarsi con tutte le sue truppe dal forte. Menelik propone di fare la pace e il 24 gennaio 1896 consegna a Felter, un ex-ufficiale in cerca di avventure in Etiopia, una lettera per Umberto I. Poi prosegue per Adua. Maconnen tratta con gli italiani per avere i confini secondo il Trattato di Uccialli, cioè praticamente poco oltre Asmara, ma Crispi vuole attaccare da Adigrat. Le brigate italiane sono disposte a Saurià, alle 9 di sera partono tre colonne, devono percorrere 15 km, 20.000 soldati contro 120.000 fucili e 20.000 armi bianche. All’alba del 1° marzo Maconnen, comandante in capo, scorge dal monastero di Abba Garima le truppe italo-eritree che procedono divise. Alle 6 comincia la battaglia, con Menelik e Taitù ad Abba Garima, ras Maconnen a Mariam Sciaoitù, con i temibili cavalieri galla, gli amara del beghemedìr, i trigrini dei ras Mangascià e Alula. Alle 10.45 è decimata la brigata Albertone, a mezzogiorno la brigata Arimondi, alla sera la brigata Dabormida. Gli italiani si ritirano ad Adi Caièh. Sono morti 6.500 soldati e 2.000 sono stati fatti prigionieri. 15.000 morti fra gli abissini. Quasi 2.000 gli ascari catturati e fatti mutilare da Menelik del piede sinistro e della mano destra perché di nazionalità tigrai.
Adua 1896. All’alba del 1° marzo le brigate italiane si infilano in questa selva di monti e vengono annientate
Alla battaglia di Adua avevano partecipato dozzine di differenti popolazioni provenienti da tutta l’Etiopia: soldati provenienti dal Tigrai con ras Mangascià e Alula, dall’Acchelè Guzai, dal Lasta, dal Uollo, dal Goggiam, dal Uollega, da Harar, dallo Scioa, e i temibili cavalieri galla dello Scioa orientale e dello Ieggiù. Adua è stata il simbolo di quello che è stato definito il “misterioso magnetismo” che tiene unita l’Etiopia. Ras Alula come al solito mostrò grande ardimento e coraggio nella battaglia di Adua. Il suo unico grande rammarico fu che non riuscì a catturare il generale Baratieri vivo, che ai suoi occhi era non solo il nemico di Etiopia, ma anche il suo personale nemico. Non gradì l’ordine di cessare l’inseguimento degli italiani in fuga lui: voleva avvalersi dell’occasione per scacciare tutti gli stranieri dall’Eritrea. Nel suo lessico non esistevano le parole ritirata, sconfitta, fallimento. Gli etiopici erano certi che in lui albergasse lo Spirito Santo. Undici mesi dopo la battaglia di Adua, nel febbraio del 1897, Alula moriva per le complicazioni sopraggiunte ad una ferita rimediata nel risolvere una questione interna. La notizia della sua morte fece rapidamente il giro del mondo. Ebbe il grande onore di essere sepolto nel monastero di Abba Garima, dove Taitù aveva pregato la notte della vigilia della grande battaglia.
La tomba di Ras Alula ad Abba Garima
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