Colonizzatori del Corno: i Baniani
Nicky Di Paolo, 2-5-05
 
 

Più volte ho evidenziato il fatto che in questo momento stiamo vivendo esattamente il contrario di quanto avvenuto  tra la seconda metà dell’ottocento e la prima metà del novecento. Infatti se in quel periodo l’Europa colonizzò buona parte dell’Africa, adesso è l’Africa che sta colonizzando l’Europa.

In maniera del tutto diversa, certo, non ci sono eserciti, non ci sono guerre di conquista, manca la diplomazia.

Il risultato però è molto simile: c’è un notevole e continuo afflusso di africani in Europa, lo scopo è quello di trovare lavoro, di poter dare un nuovo senso alla loro vita, di lasciarsi la povertà alle spalle. Per la maggior parte è gente che ha voglia di lavorare, di integrarsi, di rispettare gli usi e le leggi delle nazioni che li ospitano. Di ottenere la cittadinanza.

I nuovi coloni hanno il successo assicurato, l’avvenire molto più certo di quello che potevano avere in patria, la certezza di avere rispettati i loro diritti.

In poche parole ottengono con poco quello che gli europei  cercarono di conquistare con enormi sacrifici.

E’ quindi da considerarsi una specie di  colonialismo buono, etico, dove esistono vantaggi per tutti.

C’è sicuramente chi obietterà a quanto dico, osservando che a quei tempi si ragionava in un altro modo e i sogni imperiali facevano parte dell’intelligenza politica di allora.

Posso rispondere che anche in  quel periodo c’erano delle realtà colonialiste totalmente diverse, poco appariscenti, ma sicuramente più intelligenti e redditizie e cercherò di dimostrarlo. 

Chi è vissuto in Eritrea dalla fine dell’ottocento alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, ha conosciuto la popolazione indiana, anzi  ha trovato laggiù una notevole presenza di questa comunità i cui componenti erano conosciuti con il nome di baniani. Questi  individui sono stati descritti  da tanti storici e scrittori come elementi particolari, sempre sobri ed eleganti,  abili nel commercio di importazione ed esportazione, molli nell’aspetto, belli di sembianze e soprattutto estremamente riservati; si rifiutavano con determinatezza di  familiarizzare con altre etnie.

Devo premettere che la mia esperienza è diversa: mio padre ed un baniano crearono in Eritrea nel 1947 una società  commerciale, ma soprattutto  diventarono grandi amici e questo sodalizio durò per decenni. Conservo ancora i principali documenti della loro attività.  Narsidas Morarjie era il nome di questo capofamiglia baniano, frequentava la mia casa con estrema disinvoltura, quando ero piccolo mi riempiva di  regali e conservo ancora i fini oggetti indiani che mi donava quando ero diventato adulto.

Da qui probabilmente è nata  la mia curiosità per questi indiani particolari la cui storia penso valga la pena di essere raccontata.

La presenza indiana nel Mar Rosso data da tempi molto remoti.  In una lettera  ad Alessandro il Grande, Aristotele proponeva la creazione di una colonia greca nell’isola di Socrota, di fronte alla costa dello Yemen, nell’Oceano Indiano. Alessandro inviò prontamente  un contingente di greci che  trovarono  nell’isola un insediamento  di indiani; questi erano là da tempo e vi avevano costruito un colossale idolo. Tale notizia venne confermata dal solito Diodoro Siculo  che, nel primo secolo d. C., scrisse che  l’isola di Socrota era abitata da indiani, sciti e cretesi. Pochi decenni  dopo a confermare la presenza di indiani  in quei paraggi è stato l’ignoto autore del famoso “Periplo del Mare Eritreo”.

Nel “Periplo” si legge che indiani originari di Ariaca (l’attuale golfo di Cambay), trafficavano nel Mar Rosso, compreso il porto di Adulis, trasportando dall’India frumento, riso, burro, olio di semi, cotone, e perfino zucchero, lacche, ferro, e sete.

Tutto ciò è avvalorato dalla scoperta archeologica fatta in Adulis di un anello con corniola con una scritta in caratteri braminici e di un ritrovamento a Debra Damo di un centinaio di “Kushana”, monete d’oro indiane del 200 a.C.

Circa 300 anni più tardi è stato il greco Palladio a riferire osservazioni di Scolastico di Tebe che ad Axum aveva visto, con i suoi occhi, commercianti indiani operare nei mercati di quella che era la capitale dell’Etiopia.

D’altronde anche la stessa storia dell’Etiopia riporta che l’imperatore axumita Kaleb, nei primi anni del sesto secolo d. C., utilizzò una decina di navi indiane per invadere le coste dell’Arabia Saudita, mentre nell’ottavo secolo, secondo lo storico arabo Tubari, le isole Dahlac erano letteralmente invase da indiani.

Dobbiamo poi arrivare al tredicesimo secolo quando Marco Polo riporta che Aden ed il Mar Rosso erano frequentati da navi provenienti dall’India, cariche di  spezie e droghe.

Dopo di allora le segnalazioni sono state continue.

I portoghesi che sbarcarono a Massaua nel 1520 trovarono due navi indiane ancorate nel porto e, poco dopo, il navigatore fiorentino Andrea Corsali riferì che nel Mar Rosso  commerciavano navi indiane che scambiavano le loro merci con avorio, oro, oppio e perle.

Il gesuita Manuel de Almeida riferisce nel 1622 di aver viaggiato da Diu a Suakim su un battello indiano capitanato da un indù, descrivendo con dovizie di particolari i diversi riti religiosi giornalieri espletati dagli indiani e dagli arabi e la loro abilità nel commerciare con i nativi.

Più incerte sono le date di quando piccole comunità indiane si insediarono stabilmente  a Massaua, nelle Dahlac ed in molti altri porti delle coste africane e arabe.

In ogni caso i baniani erano già ben stabiliti a Massaua nei primi del ‘700 e ne fanno fede molti documenti scritti, da quello del prete cattolico Melchiorre da Silva al prete gesuita spagnolo Pero Paez che cita le ottime relazioni tra indigeni e baniani.

Secondo un altro gesuita, Manoel Barradas, i baniani tenevano il monopolio del denaro e lucravano con l’usura; cita perfino un paio di prestiti fatti alla Compagnia di Gesù. Sempre secondo il Barradas il denaro veniva restituito al porto indiano di Diu, facilitando in tal modo  ai baniani  il rientro dei capitali.

James Bruce, il noto esploratore scozzese, pochi anni dopo scrisse che nel Mar Rosso il commercio indiano era molto fiorente e per la prima volta aggiunse che i baniani erano molto interessati ai  gusci delle tartarughe, alla mirra, allo zibetto, tutti prodotti che in India venivano pagati a peso d’oro, mentre nel Mar Rosso venivano scambiati con stoffe e cianfrusaglie di scarso valore, ricavandone profitti molto considerevoli. Sempre Bruce riferì che i baniani ebbero anche dei momenti difficili a causa di problemi politici locali e che , per superarli, si misero a lavorare come gioiellieri, riscuotendo molto successo.

La fine dell’800 segnò l’inizio della produzione  di una documentazione letteraria  ricca sui baniani che ormai controllavano una vasta porzione di tutte le attività commerciali sia nel Mar Rosso che nella costa africana e yemenita dell’Oceano Indiano.  Portavano dall’India le stesse cose di sempre quali sete, cotone, riso, profumi , piccolo artigianato,  mentre acquistavano nel Corno, oltre alle perle, anche  gusci di tartaruga,  avorio e  pinne di pescecane; queste ultime acquistarono un’importanza davvero particolare in quanto, inviate in Cina e India, venivano considerate altamente afrodisiache e pagate a peso d’oro.

Che la maggior parte del commercio in quell’area fosse nelle mani dei baniani , non faceva certo felici gli osservatori europei che si vedevano tarpare le ali nei loro programmi di espansione economica. Da Aden, Jedda, Massaua e Berbera le segnalazioni erano sempre le stesse: i baniani monopolizzavano l’intero commercio.

Alcuni osservatori cercarono di analizzare  il fenomeno: il francese Rochet d’Hericourt  li descrisse come una “comunità religiosa applicata al commercio” spiegando che ogni famiglia indiana giunta  nel Corno  portava seco un certo capitale che versava alla comunità, acquisendo da quel momento diritti proporzionati ai profitti generali ed alla quota versata. A ciascun baniano veniva affidato dalla comunità un compito preciso, che poteva spaziare dall’amministrazione del denaro alla conduzione domestica, dalla ricerca di merce all’istruzione e cura dei minori, dalla vendita al dettaglio alla cura delle relazioni locali. Lo stesso autore li raffigurò come molto competenti nel commercio, molto corretti, rispettosi dei costumi locali e quindi in genere amati dai nativi.

Le città e le zone dove era più importante la presenza dei baniani nei primi del novecento erano Zeila, Socotra, i porti del golfo di Aden, la Migiurtinia nel nord della Somalia e il Benadir a sud,  le sole Dahlac e Massaua. Le importazioni ed esportazioni erano ancora più o meno le stesse. Tra le merci esportate in India erano state aggiunte la gomma, le conchiglie, la madreperla e, assieme alle pinne di pescecane, quelle di pesce sega.

Il monopolio indiano del commercio del Corno d’Africa non fu messo in crisi dall’avvento italiano, come poteva invece supporsi. Specialmente nelle isole Dahlac continuò l’impero dei baniani, tanto che corrispondenti italiani dall’India (perfino il console Claudio Boggiano) nei primi del novecento, avvisarono le autorità italiane che autentiche fortune in perle giungevano  in estremo oriente dalle isole eritree, senza che i commercianti pagassero un dazio  e comprate in cambio di sete e riso. La scarsa sorveglianza dell’enorme quantità di miglia di coste da tenere sotto controllo, lasciò in pratica in mano ai baniani quel commercio che si erano creati in tanti secoli. Anche le famiglie baniane di Massaua continuarono indisturbate i loro traffici e vennero rispettate dal governo italiano.

E’ interessante leggere le opinioni di giornalisti e scrittori italiani dei primi del novecento sui baniani. Tutti, compreso il Negri, il Martini, il Mantegazza e il  Pennazzi, erano d’accordo nel definirli gente pacifica, d’estrema sobrietà che unitamente all’assiduo lavoro, davano esempio di virtù nella vita privata, di cieca fedeltà alle leggi locali; erano astuti, ma onesti , ricchi, ma amati e stimati da tutti.

Vivevano in ottime relazioni con i nativi, senza mai essere coinvolti in dispute commerciali. I baniani non si occupavano di politica, non davano lavoro al tribunale, né per problemi legati al commercio, né per cattiva condotta e tutti, indistintamente, si distinguevano per la cordialità e la gentilezza.

Gli stessi autori erano concordi nel ritenere che i baniani in Eritrea, avessero a disposizione somme ingenti di denaro, fornite da case inglesi ed indiane. Fatto sta che i loro negozi erano i più forniti, i più puliti, con i prezzi più concorrenziali pur avendo la merce di migliore qualità. Secondo il Mantegazza, i nativi di Massaua, erano talmente affascinati dall’arte orafa dei baniani , che spendevano tutto ciò che guadagnavano nelle gioiellerie indiane.

E’ chiaro che con tale potenza finanziaria potevano controllare le banche e quindi il costo del denaro. Di tale opinione era anche Richard Pankhurst, in un suo scritto del 1972, pubblicato su “Sestante”, un semestrale italiano, stampato all’Asmara.

I baniani celebravano una sola festa durante l’anno, a fine Marzo (“ il Festival Santo” o dei colori). Solo in quell’occasione abbandonavano la loro sobrietà per darsi a una danza caratteristica dove i ballerini si gettavano addosso l’un l’altro una polvere rossa cosicché ben presto i loro volti, gli abiti, le membra, si tingevano tutti di rosso dando loro un curioso aspetto. Poi per tutto l’anno non  davano alcun problema.

L’arrivo degli italiani, in un primo tempo fu un affare lucroso per i baniani: i loro negozi erano assediati dai nuovi coloni e spesso erano gli stessi  baniani che si spostavano con delle bancarelle fino alle postazioni più avanzate degli italiani offrendo loro generi di prima necessità traendone  come al solito grandi guadagni.

Quando l’amministrazione italiana cominciò a esercitare una certa pressione per costringere i baniani a pagare le tasse, ci fu una presa di posizione dura da parte degli indiani che rivendicavano diritti acquisiti in centinaia di anni ed instaurarono un contenzioso con le  autorità che fra l’altro incoraggiavano le imprese italiane a creare un mercato contrapposto a quello indiano. Tuttavia non doveva essere stata una grande pressione se qualche anno dopo tutti i servizi bancari a Massaua erano in pratica controllati dai banani, che di fatto erano  i principali intermediari per il credito nel Mar Rosso.

La presenza degli italiani però modificò profondamente l’andamento della  la situazione. Quando si sparse la voce che gli europei pagavano le perle molto di più dei baniani e non solo le perle, ma anche la madreperla, il caffè, la tartaruga ed altro, per gli indiani la pacchia era finita. Ma non fuggirono. Si adattarono.

Negli anni successivi i baniani si spostarono all’Asmara dove anche là occuparono un posto privilegiato in un commercio obbligatoriamente  onesto. Cominciarono a  esportare il caffè e l’incenso, assieme a tutto il resto e a importare dall’India un’infinità di prodotti  indispensabili ad una città in grande espansione. Narsidas Morarjie e mio padre importavano dalle penne a sfera alle stoffe, dagli abiti alle scarpe, dal riso allo zucchero ed esportavano caffè ed incenso. Anche in Asmara, gli indiani hanno goduto  sempre di un’eccellente reputazione.

Ho sentito sempre parlare bene dei baniani da parte di mio padre. Lui lavorava con loro e mi assicurava che erano molto equi e che avevano uno spiccato senso della giustizia. Quando gli ricordavo che fino a pochi anni prima avevano fatto fortuna pagando  poco o nulla chi si rovinava la vista e la salute per pescare le perle, mi rispondeva che quelli di Asmara erano persone corrette.

Fino alla fine degli anni cinquanta, all’Asmara i baniani hanno continuato ad aumentare di numero, divenendo una importante comunità. Vivevano in case  sobrie, vestivano decorosamente, senza mai ostentare ricchezza e anche qua avevano il rispetto degli indigeni.

Poi pian piano con l’inizio delle ostilità tra Eritrea ed Etiopia, i baniani hanno cominciato a defilarsi, come del resto tutti gli stranieri, fino in pratica a sparire del tutto.

Se cerchiamo ora di analizzare la presenza di questi indiani nel Corno d’Africa con il senno del poi, possiamo tranquillamente affermare che quella dei baniani  è stata una forma di colonialismo molto intelligente e lucrosa. Niente armi, perché non ne portavano, niente prepotenze, nessuna rivendicazione. Ma era solo una bella facciata, perché, a mio parere, quelle loro erano piccole colonie di sfruttamento. Infatti esisteva l’assoluta volontà di non integrarsi con la popolazione locale che evidentemente non consideravano all’altezza della loro casta, popolazione che ininterrottamente truffavano scambiando merci pregiate con prodotti di basso costo. Se proviamo a calcolare i dati stimati dal console Carlo Boggiano che valutò in almeno tre milioni di lire l’anno (valuta del 1900) il valore di perle che giungeva in India dall’Eritrea, si può intuire che il valore complessivo di tutta la  merce esportata in India in un centinaio di anni, superava alla grande la cifra spropositata spesa dall’Italia per quei luoghi, senza avere mai ricevuto nulla in cambio.

Quindi poche migliaia di indiani, con molta furbizia e scarso senso della morale, hanno tratto guadagni enormi. Loro, laggiù,  sono ricordati  ancora oggi con simpatia.

 

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