Nicky Di Paolo, 16-6-04
I cinque anni che
seguirono l’occupazione dell’Etiopia da parte degli Italiani, dal 1936 al
1940, segnarono per l’Eritrea un momento di sviluppo non più frenetico
come nei diciotto mesi precedenti, ma di assestamento e consolidamento di
quanto in precedenza impiantato ed impostato.
A differenza
dell’Etiopia, il morale era altissimo: in Eritrea non esisteva quella
terribile lotta partigiana che, instauratasi immediatamente dopo la fine
delle ostilità, dilaniava le terre del Negus e contemporaneamente ne
frenava lo sviluppo; gli ascari erano fieri della vittoria, di lavoro ce
n’era per tutti, l’assistenza sanitaria copriva ormai l’intero territorio
ed il programma per l’istruzione degli indigeni diventava ogni giorno più
completo.
In questa situazione
tra il 1937 e 1938 si assistette ad un arrivo dall’Italia di imprenditori
importanti che credevano nel futuro della Colonia, mentre al contempo, un
flusso inverso, scremava quella popolazione immigrata che non aveva, per
svariate ragioni, trovato le condizioni necessarie a crearsi una nuova
vita.
Parecchi furono anche
i militari che decisero di rimanere come civili e fra tutti si mise in
atto quello spirito creativo e pionieristico proprio degli italiani in un
clima sereno e con la popolazione indigena che metteva in atto un grande
spirito di collaborazione.
Molte furono le grandi
opere create nel quinquennio ‘35–‘40. Una che si rese famosa in tutto il
mondo per la sua arditezza fu la costruzione della teleferica eritrea.
La teleferica Massaua
– Asmara, iniziata nel 1935 e completata nel Marzo del 1937 aveva una
lunghezza di 71.8 km e, partendo in due tronchi dalla stazione di Campo di
Marte e dal Deposito Munizioni di Moncullo a Massaua, giungeva,
scorrendo quasi in linea retta, alla ultima stazione di Godaif, a sud di
Asmara superando un dislivello di 2340 metri.
Essa, per quanto mi
risulta, è stata la teleferica più lunga del mondo in quanto copriva una
distanza di circa il doppio della teleferica del Lapland che è giudicata
oggi la più lunga esistente. Essa fu resa inoperosa nel 1941 subito dopo
la battaglia di Cheren da parte degli inglesi che provvidero
immediatamente a rimuovere tutti i potenti motori con centinaia di
chilometri di cavi per trasportarli in India. Tutto il resto rimase
pressoché intatto per più di venti anni, poi, dopo la guerra con
l’Etiopia, di tutta la teleferica oggi non rimangono che le fondamenta dei
piloni.
Quando era funzionante
la teleferica eritrea appariva al viaggiatore come qualcosa di
impressionante che si affiancava e si confrontava con la ferrovia che le
correva appresso: al centro dell’orizzonte si poteva scorgere sempre un
immenso pilone che si ergeva fino a trenta metri di altezza e che, con
due braccia contrapposte, sorreggeva tre grossi cavi; due di questi, di 30
millimetri, sorreggevano file di carrelli che da un lato salivano e
dall’altro discendevano; la terza fune, di 22 millimetri, era invece
quella traente. I cavi sembravano abbassarsi quasi fino a terra, ma non
scendevano mai sotto i dieci metri, per poi risalire rapidamente e
raggiungere il successivo pilone lontano centinaia di metri. La più lunga
distanza fra due piloni, di circa 900 metri, la si poteva ammirare nei
pressi di Nefasit.

La distanza fra un
carrello e l’altro era di cento metri e, a pieno regime, erano in funzione
1620 carrelli di circa due metri di lunghezza, capaci di trasportare
ciascuno un carico di 300 chili. La velocità della teleferica era di nove
chilometri l’ora e quindi la capacità della teleferica era di trenta
tonnellate all’ora in ciascun senso, pari a quella di trenta treni, ma con
costi decisamente minori.
Erano otto le stazioni
intermedie, la più importante situata a Nefasit dove esistevano le
officine di riparazione ed i magazzini. Otto erano anche le stazioni
motrici corredate di potenti motori diesel Tosi di 150 cavalli vapore.
Era in programma l’elettrificazione della linea, ma non ci fu il tempo per
realizzarla.
La teleferica ebbe un
successo strepitoso in quanto fece cadere i prezzi di trasporto dal mare
verso l’interno, velocizzò i trasferimenti di derrate alimentari,
alleggerì la pressione sulle ferrovie e sulla rotabile Asmara-Massaua.
La popolazione
indigena inoltre era estasiata dalla teleferica. Rimanevano per ore a
rimirare file ininterrotte di carrelli carichi di merce che salivano e
scendevano in continuazione, senza mai fermarsi, librandosi leggeri sopra
burroni, cime, torrenti, paesi, fra le nebbie dell’altipiano e le aride
savane della costa. Sono in possesso di fotografie dell’epoca che
ritraggono eritrei che stanno viaggiando sulla teleferica, sospesi fino ad
oltre cento metri: sorridenti, sembrano godersi quella che doveva essere
una spettacolare esperienza. Non sono riuscito a sapere invece se quelle
escursioni erano del tutto straordinarie oppure ci fosse un utilizzo
continuo della teleferica in tal senso.

Possiamo
tranquillamente affermare che la teleferica eritrea, oltre a rappresentare
una vanto di una moderna ed ardita ingegneria, simboleggiava una tenace
volontà di sviluppo e di modernizzazione.
Lo smantellamento di
questa opera grandiosa effettuata negli anni ‘50 da parte degli inglesi
che si giustificarono asserendo di dover recuperare così le loro ingenti
spese impiegate per la liberazione dell’Abissinia, rappresenta senza
dubbio una delle azioni più infami attuate verso le genti eritree, in
quanto in quel momento la teleferica era diventata loro per diritto
acquisito, mentre gli inglesi avevano il protettorato sull’Eritrea senza
alcun diritto di depredare. Un’altra giustificazione puerile allo
smantellamento fu quella che la teleferica era un’opera militare e come
tale doveva essere rimossa: questa fu senza dubbio un‘asserzione insulsa;
la teleferica fu ultimata quando le operazioni militari italiane in
Abissinia erano terminate da un anno e dopo la conquista di Addis Abeba in
Italia nessuno più pensava ad inviare materiale bellico nel Corno
d’Africa, ma semmai era vero il contrario. La teleferica infatti non fu
mai usata per scopi militari e non esisteva alcun programma di lavoro in
questo senso.
Esisteva invece una
terza ragione importante per distruggere la teleferica. La buona
situazione economica in Eritrea disturbava gli inglesi: la forza e la
volontà del lavoro italiano, in buona sintonia con quello indigeno,
rischiavano di far apparire agli osservatori dell’ ONU un paese per niente
turbato dalla presenza degli ex colonizzatori, ma anzi avviato verso
ottime prospettive di sviluppo. Tutto ciò avrebbe potuto far pendere dalla
parte della bilancia la richiesta di un protettorato italiano in Eritrea.
La soppressione della teleferica e quella dei cementifici poteva
sicuramente rientrare nell’obiettivo di ridimensionare il ruolo italiano.
Gli amici eritrei
dovrebbero oggi, a mio parere, richiedere all’Inghilterra i danni per
quello che i britannici causarono all’economia di quel Paese considerando
il fatto che se questi ultimi combatterono a fianco degli etiopici per
sconfiggere gli italiani, non lo fecero certo per un impulso umanitario,
ma con lo scopo ben preciso di acquisire un ruolo chiave nel controllo del
Corno d’ Africa. Questo non poteva dar loro il diritto di distruggere
l’opera italiana che era diventata automaticamente, di diritto, proprietà
eritrea.
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