Etiopia magica

 

Ritorno in Dancalia

 

Antonio Biral 2004

 

PREMESSA:

Dopo nove anni siamo ritornati nella Dancalia etiopica, a dispetto di coloro che ebbero a dire perché non eravamo andati a Rimini, anziché là; e anche di chi, non conoscendoci, ha avuto la tracotanza di offendere in maniera intollerabile e volgare.

Devo dire che come oggi sappiamo i rischi che si corrono ad attraversare quei territori, anche allora lo sapevamo, e molto bene. Non a caso, prima di partire, avevo depositato le mie volontà testamentarie e stipulato una assicurazione supplementare a copertura del rischio morte.

Da Sardò siamo arrivati al lago Afrera percorrendo i centottanta chilometri della nuova pista, quella che avevamo visto in costruzione nel 1995, quando erano stati realizzati solo i primi chilometri.

Questa via di comunicazione, oltre a togliere dall’isolamento, dovrebbe rendere possibile il controllo di un territorio tutt’ora considerato ad alto rischio per coloro che intendono addentrarsi. Non è raro che avvengano episodi di estrema violenza, come l’essere attaccati e a volte uccisi da guerrieri di tribù Afar. È dal 1992, dopo la “fine” del conflitto tra Etiopia ed Eritrea, che non cessano di rivendicare la loro autonomia. Nondimeno sono gli ex militari allo sbando, che hanno fatto della rapina il loro nuovo lavoro.

A parte ciò, la pista ha grande importanza per lo sviluppo delle attività inerenti lo sfruttamento delle acque del lago per la loro elevata salinità. È da poco che sono state avviate, nella sua parte meridionale, gigantesche operazioni di sbancamento per la formazione dei bacini di evaporazione e di raccolta del sale. Già ora le quantità prodotte sono ingenti.

Immaginavo che non avrei rivisto né ritrovato le cose che vidi nove anni fa, ma così, come le sto vedendo ora, proprio non lo credevo.

Il fascino di desolazione infinita che emanava quel luogo tanto lontano dal mondo degli uomini, i silenzi assoluti, la percezione di immutabilità, le bianche schiume salmastre addensate lungo le rive, ora devastate e sconvolte da migliaia di presenze, mi crea una sensazione di insofferente nostalgia.

Lasciamo il lago Afrera sotto imposizione di una scorta armata e ci addentriamo nella Piana di Rorom, una desertica pianura di sabbie vulcaniche macchiata da nere placche di lava e dal biancore del gesso. Un terreno a tratti difficile, cosparso di insidiose buche mimetizzate da coltri di soffice cenere; dei veri trabocchetti per le nostre macchine.

Percorsa la piana, con qualche difficoltà, siamo giunti in un luogo chiamato Abdallali, proprio sul limitare della base lavica del vulcano Erta Ale. Una misera capanna, tre bambini e una donna, danno il nome a questa località dove ci accampiamo per la notte.

Alle prime luci dell’alba iniziamo ad avanzare cercando i pochi varchi liberi fra i blocchi e i crostoni di lava che sempre più ostruiscono il passaggio. Ai continui scossoni e sobbalzi, provocati dell’insidioso terreno, una macchina cede di colpo e si inclina su un lato. Siamo fermi, bloccati nel tentativo di riparare un guasto che si presenta di non facile soluzione. Non farcela, significa dover abbandonare lì la macchina.

Dopo quattro ore di faticoso lavoro, sotto le vampe del sole e il riverbero della lava rovente, finalmente siamo arrivati a forza di fil di ferro, pezzi di legno e di camera d’aria, a risolvere quel tanto per poter arrancare di nuovo verso il vulcano e, a metà pomeriggio, siamo giunti nel luogo dove ci stava attendendo l’unico uomo che avevo visto ad Abdallali, un giovane Afar col suo cammello.

Da qui prenderà il via la marcia che ci porterà verso la sommità del vulcano, elevato di soli 600 metri dalla base che ha un diametro di trenta chilometri. Subito, senza perdere tempo, carichiamo le taniche della scorta d’acqua sull’animale e, con la calura che supera ancora i 42°C, iniziamo la salita per arrivare a far sosta a poca distanza dalla cima, quando già le ultime luci del giorno stanno scomparendo. Nel buio che ormai ci circonda, solo il cielo appare incredibilmente luminoso, un infinito annuvolato di stelle che sto ad ammirare in attesa che mi giunga il sonno.

Ancora prima che spunti l’alba siamo pronti a muoverci verso il bordo sommitale della caldera di questo vulcano; uno dei tre, unici al mondo, dove si può osservare ininterrottamente una superficie di lava fusa all’interno del cratere.

Attraverso un ripido passaggio scendiamo fino a metter piede dentro la grande caldera. Una sconvolta piattaforma lavica color grigio metallico, un immenso impasto dalle forme contorte che si estende fra fumarole, gas asfissianti e gorgoglii di vapori bollenti. Un intrigo di tunnel lavici collassati, di friabili crostoni di lava, pronti a cedere sotto il nostro peso, rendono difficile e pericoloso muoversi.

Raggiungiamo la bocca del cratere attivo, quello che si trova nella parte centrale della caldera; l’altra bocca, quella a nord, di dimensioni maggiori, sprigiona solo grandi quantità di fumi e gas.

Con rischio, ci affacciamo al bordo frastagliato del cratere e a fatica crediamo a ciò che vediamo. Sotto di noi, a una profondità di circa settanta metri e un diametro di un centinaio, un lago di magma è in continuo movimento. Lo strato di lava, in superficie, sembra galleggiare sulla sottostante massa come la pelle che si forma su una tazza di latte bollente. Un lago incandescente, segnato da correnti che ondulano, che gonfiano, che originano bolle e fontane. Nei momenti meno attivi, la lava appare come uno scudo di colore grigio metallico; un enorme coperchio che all’improvviso si sconquassa sotto l’incontenibile pressione dei gas che fuoriescono arroventano l’aria, mentre nuovo magma dilaga e sommerge la vecchia crosta inghiottendola come scoria dentro il crogiolo di un gigantesco altoforno.

Il cratere attivo dell'Erta Ale

Questo vulcano rimane uno dei posti più inaccessibili della Terra, si trova al centro della Depressione Dancala: un remoto fondale marino disseccato che sprofonda fino a 120 metri sotto il livello del mare. Qui le temperature raggiungono, e spesso superano, i 55 °C all’ombra, quando l’ombra c’è.

Un lembo d’Africa privo di ogni via di comunicazione, che non permette nulla, o quasi, dove solo gli Afar, un popolo di stirpe guerriera, forte e orgoglioso, si è adattato a vivere una misera esistenza da nomade. Un vagare senza fine in continua e spietata lotta per la sopravvivenza, ostile a chiunque metta piede nei loro territori.

Dopo l’Erta Ale, non abbiamo potuto continuare la traversata per raggiungere Dallol, come era nei nostri programmi. Questo, perché la polizia militare, che controlla l’area attorno all’Afrera, non ci ha autorizzato a proseguire, causa una misteriosa sparizione verificatasi qualche mese prima, proprio su quel tratto. Una donna, che faceva parte di una spedizione tedesca, si era inspiegabilmente persa. Non fu più ritrovata, nonostante i compagni l’avessero cercata affannosamente in lungo e in largo per tutto il giorno e tutta la notte, segnalando con i fari e i clacsons la loro presenza, ma niente. Ritornati a Barahlè hanno chiesto l’intervento di un elicottero, ma anche questo non ha dato i risultati sperati.

Così senza permesso abbiamo dovuto ripiegare.

La scelta è stata di ritornare a vedere il villaggio di Asayta, l’importante centro nel territorio dell’Aussa, sede del Sultano; colui che nove anni fa ci permise, dopo il pagamento di un esagerato pedaggio, di varcare, sotto la scorta dei suoi uomini armati, i confini di quelle terre dove vigeva incontrastata la sua legge. A quel tempo, solamente lui, e nessun altro, poteva garantire l’incolumità a chi avesse osato oltrepassare quei limiti.

Questa decisione è venuta a proposito, perché proprio lì, ad Asayta, su informazione di un militare che ci aveva chiesto un passaggio fino a Samera, abbiamo saputo che Muhadin, il capo degli ARDUF (quello che ci aveva sequestrati nel 1995) si trovava proprio in quel luogo, e lui poteva farcelo incontrare.

Era proprio quello che volevamo, perché, oltre all’Erta Ale e Dallol, questo era un altro obiettivo del viaggio, che probabilmente non saremo riusciti a realizzare se non fosse sopraggiunta questa fortunata coincidenza.

Finalmente, dopo essere passati più volte da un posto all’altro, siamo riusciti a trovarlo. Stava all’interno dell’area militare di Samera: un moderno villaggio, tutto nuovo e non ancora ultimato, sorto dal nulla su una terra arida e polverosa. Voluto dallo Stato per far sì che gli abitanti di Asayta, lontani settanta chilometri, e di tutta l’area adiacente, abbandonino le baracche e le capanne per trasferirsi lì. Ma nessuno lo sta facendo, e le nuove case restano disabitate. Non so per quale fine il Governo voglia costringerli a questa migrazione, per la quale ha già provveduto a trasferire gli uffici e le sedi amministrative, ma credo che ben pochi decideranno di andarci. È inconcepibile pensare che questa gente abbandoni un’area fertile e ricca d’acqua, com’è quella di Asayta, per ritrovarsi in una terra arida, dove non cresce nulla che possa sostentare uomini e animali. Di sicuro rimarrà un villaggio fantasma.

Siamo arrivati all’interno del recinto dell’area militare, all’ultimo caseggiato prima del muro di cinta. Ci troviamo ad aspettare di fronte alla porta di una semplice costruzione prefabbricata, a piano unico, in attesa che qualcuno ci faccia entrare. In quei minuti rimaniamo a fissare la donna che sta accucciata davanti alla soglia: il gradino è tutto insozzato dal sangue e dai brandelli di carne di una povera capra finita sotto gli impietosi colpi del suo coltellaccio. La sta squartando e riducendo in pezzi che vengono buttati dentro una sgangherata pentola di alluminio.

Con indifferenza, stiamo lì ad osservare la scena quando ci viene fatto cenno di entrare, tolte le scarpe, ci accomodiamo nell’atrio. Le pareti sono squallidamente abbellite da un paio di posters, appiccicati storti come ogni altra cosa appesa, una prerogativa, questa, che accomuna tutta l’Africa: non riuscire a rispettare le linee verticali e orizzontali.

Quei manifesti raffigurano due paesaggi alpini con torrenti di acque limpide, boschi di pini e vette innevate, forse nell’illusione di combattere la calura che qui dentro è ancora più accentuata dall’irradiamento del tetto, basso e per niente isolato. Le finestre rimangono chiuse, i vetri sono dipinti da diversi strati di vernice blu, colata per indolenza giù per le intelaiature e il muro, forse anche questo nell’illusione di isolare un po’ di luce e di calore.

In questi attimi di trepidante attesa, ho il pensiero che corre ai lontani giorni di prigionia, e l’emozione mi monta dentro irrefrenabile quando vedo Muhadin sbucare da una porta della sua casa-ufficio. Si presenta ai nostri occhi non più con il carisma di un tempo. Nove anni fa lo sguardo era fiero, penetrante, incuteva timore e rispetto, ora gli occhi sono spenti, il corpo appesantito, i movimenti rallentati e i riflessi non più pronti.

Muhadin Muftha nel 1995

La sorpresa e l’incredulità di vedere lì, davanti, quelli che una volta erano stati i suoi prigionieri, è stata per lui inimmaginabile. Non riusciva a capire il perché di questa visita, e ci scrutava perplesso manifestando un atteggiamento diffidente, subito cancellato dal nostro sorriso e da una amichevole stretta di mano.

Avevo portato con me delle fotografie scattate allora; fotografie che ritraevano luoghi e persone durante quel periodo di prigionia a Waideddo. A quella visione il suo volto si fece serio, segnato di tristezza. Guardava e riguardava quelle immagini ammutolito, avvolto da un’emozione che a malapena riusciva a mascherare. Poi, soffermandosi sul ritratto della donna, che era stata sua, passava e ripassava le dita sul quel volto, come per volerla accarezzare e, con un fil di voce, disse che Fatuma era morta.

La fortunata coincidenza di ritrovarmi con Muhadin, dopo nove anni, è l’occasione per chiedergli spiegazioni su tante domande rimaste senza risposta. Capisco però che il dialogo non è libero, l’avvicendarsi continuo di persone dall’aria attenta, la difficoltà di linguaggio, in più, i momenti di confusione della sua mente, ci impediscono di avere quelle risposte, così decidiamo di congedarci.

Sono momenti di intensa emozione quando, con un abbraccio, ci salutiamo per sempre.

Abbiamo saputo, dal militare che ci chiese il passaggio per Samera, che il Governo, subito dopo la conclusione della nostra vicenda, diede il via ad una dura repressione contro gli ARDUF (Afar Revolutionary Democratic Unity Front), quel movimento armato che si batteva per l’autonomia degli Afar dall’Etiopia. L’esercito fu inviato per ristabilire il controllo in quell’area dove essi si annidavano e dove nessun altro, all’infuori degli Afar, può pensare di vivere, paradossalmente protetti da condizioni ambientali impossibili.   

Nel conflitto con le forze governative molti di loro furono uccisi, alcuni di questi li avevamo conosciuti.

L’incontro con Muhadin - marzo 2004

Per Muhadin, invece, la sorte dopo la sua cattura non fu di infliggerli una pesante condanna, anzi, per non farne un martire lo portarono ad Addis Abeba e lo trattarono al meglio. Ha potuto disporre di tutto, anche di quello che non sapeva di desiderare: automobili, donne, ristoranti, droghe, alcool. Così, staccato dalla sua realtà, fiaccato nel pensiero e da un vivere di vizi che gli venivano imposti, e ai quali non poteva sottrarsi, poco a poco cominciò una lenta e inesorabile discesa fino a ritrovarsi dove oggi si trova: relegato in un villaggio semidesertico sotto osservazione. Responsabile di tutto quello che avviene tra gli Afar del suo gruppo e il Governo; questo, fin quando servirà, poi, sempre più emarginato, nessuno penserà più a lui.

     

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