Il mistero del sacro Graal Graham Hancock, Edizione Euroclub Italia S.p.A. 1996 Titolo originale: The Sign and the Seal. A Quest for the Lost Ark of the Covenant, 1992
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Ex giornalista (The Times, The Sunday Times, The Independent, The Guardian, co-editore della rivista New Internationalist 1976-1979, corrispondente dall’Est Africa di The Economist 1981-1983), Graham Hancock (GH) iniziò la carriera di scrittore negli anni ’80 (Journey Through Pakistan con Mohamed Amin e Duncan Willetts 1981, Under Ethiopian Skies con Richard Pankhurst e Duncan Willets 1983, Ethiopia: The Challenge of Hunger 1984, AIDS: The Deadly Epidemic 1986, Lords of Poverty 1989, African Ark con Angela Fisher and Carol Beckwith 1990). Nel 1992 pubblicò The Sign and The Seal (un bestseller, oltre tre milioni di copie vendute), seguito nel 1995 da Fingerprints of the Gods (un libro che si legge tutto d’un fiato), poi da Keeper of Genesis e da Heaven's Mirror, che diventò in Inghilterra una serie televisiva di successo Quest for The Lost Civilization prodotta da Channel 4 e The Learning Channel.
Hancock è uno scrittore di grande talento. I suoi libri hanno un grande successo perché lui affascina i lettori. Permettetemi una critica al suo libro: “Il mistero del Sacro Graal”.
Il sottotitolo originale A Quest for the Lost Ark of the Covenant avrebbe dovuto essere tradotto Alla ricerca dell’Arca perduta” come il film di Indiana Jones, e non si capisce cosa c’entri il calice di Cristo. Ed è infatti al film di Indiana Jones che GH si è ispirato per scrivere il libro:
Avendo visto da poco il film di Indiana Jones, ”I predatori dell'Arca perduta”, ero naturalmente attratto dalla possibilità - peraltro remota - che la più preziosa e mistica reliquia dell'epoca antico-testamentaria, una reliquia creduta perduta per almeno tremila anni, potesse davvero stare nella città che mi accingevo a visitare [Aksum]. (pag. 17)
Dopo il titolo ho qualcosa da ridire anche sulla dedica:
Questo libro è dedicato alle popolazioni del Tigrè. Quando mi ero perduto, mi indicarono la via.
Attenzione alle date: la prima edizione di questo libro è uscita nel 1992, subito dopo che i tigrini avevano cacciato Menghistù e preso il comando dell’Etiopia. E Menghistù, per il quale GH aveva lavorato assieme a Richard Pankhurst, è ora definito uno dei più sanguinari dittatori africani (pag.12). Con questa dedica GH sembra volersi ingraziare i tigrini, che aveva completamente ignorato nei libri scritti sotto il regime di Menghistù. Under Ethiopian Skies è infatti … un progetto di cui mi sarei amaramente pentito… un libro che il governo di Menghistù aveva commissionato allo scopo di proclamare l’unità di fondo del paese… (pag.12), libro dove i tigrini, ora padroni dell’Etiopia, proprio non esistono.
E, permettetemi la digressione, non esistono neanche nel bellissimo libro fotografico African Ark di Angela Fisher e Carol Beckwith, che illustra in modo mirabile tutte le popolazioni del Corno d’Africa, tranne i tigrini, che non vengono neanche nominati.
A questo punto uno rimane allibito e necessariamente si deve chiedere come mai Richard Pankhurst, oggi da alcuni considerato il maggior etiopista della nostra epoca (vissuto a lungo sotto l’ala protettrice di Hailè Sellassiè, il quale concesse fra l’altro che la madre di Pankhurst, deceduta in Etiopia, fosse seppellita nel giardino antistante la cattedrale di Addis Abeba) abbia potuto collaborare al libro commissionato da Menghistù. E ancora meno si capisce come mai Pankhurst abbia potuto contribuire al libro “L’Ethiopie et ses populations” di J. Vanderlinden, edito nel 1977 da Editions Complexes di Brusselles e distribuito dalla Presse Universitarie de France, con un disegno dispregiativo dell’Imperatore nell’atto di spremere la sua gente:
L’Imperatore visto da Pankhurst nel 1977
Evidentemente qualcosa spinge qualcuno ad onorare i nuovi padroni e rinnegare i vecchi.
“Il mistero del sacro Graal” cerca di ricostruire la vera storia dell’Arca dell’Alleanza, scomparsa dal tempio di Salomone nel sesto secolo a.C. senza lasciare traccia e che, secondo la tradizione etiopica, è custodita nella città santa di Aksum. La leggenda, che per gli etiopici è storia, racconta che Macheddà, regina di Aksum, si recò a Gerusalemme a trovare Salomone, ne ebbe un figlio chiamato Menelik, il quale rubò l’Arca e la portò in Etiopia. Il libro di Graham Hancock è il frutto di una ricerca durata nove anni (dal 1983 al 1992) ed è documentato con ben 51 pagine fitte di note per un totale di 1272. Si rimane veramente impressionati davanti a questa mole di dati. Le ricerche portano l’autore al British Museum di Londra, a Chartre in Francia, dove visita la cattedrale, ad esaminare in dettaglio testi medioevali come il Parzival di Wolfram (XIII sec.) e tanti altri, poi a Gerusalemme, sul Sinai, in Egitto all’isola Elefantina e in molti luoghi dell’Etiopia.
Dalla lettura del Parzival GH ipotizza la possibilità che i templari, alla ricerca dell’Arca, siano andati in Etiopia, prima ad Aksum poi a Lalibelà. E qui si fa aiutare, nella sua ricerca, dallo studioso etiopico Belai Giday, suggeritogli da Richard Pankhurst. Un suggerimento, a mio avviso, assolutamente inadeguato per una ricerca storica (basta leggere uno dei libri di Belai Giday, ad. es. Ethiopian Civilisation, per rendersene conto), ma chiaramente adatto ad un romanzo. A Lalibelà GH è convinto che i templari abbiano costruito le famose chiese rupestri, una delle meraviglie del mondo, ed è rafforzato nella sua opinione da alcune croci templari che nota nel soffitto dipinto della chiesa di Maria.
Chiesa di Maria a Lalibelà
Per dovere di cronaca va detto che fin dal 1938 Lino Bianchi Barriviera aveva illustrato, nei suoi ineguagliati rilievi delle chiese del Lasta, delle croci di Malta modificate. Ma anche ad Aksum, nella tomba di Calèb, GH nota la croce templare.
Una perfetta croce di Malta rinvenuta nella tomba di Calèb ad Aksum.
Qui bisogna dire che in Etiopia è diffusissima la croce greca, simbolo di S. Pacomio e dei monaci abissini, e la croce dei templari non è altro che la croce di S. Pacomio.
Questa croce di S. Pacomio è identica a quella della tomba di Calèb, che GH identifica con una croce templare
Da questa somiglianza GH conclude che vi è la possibilità che i templari siano stati in Etiopia.
Ma né Conti Rossini nella sua “Storia d’Etiopia” né Malcolm Barber nel suo “La storia dei templari” accennano al fatto che i templari siano andati in Etiopia. E dato il livello culturale dei personaggi (Conti Rossini il più grande etiopista di tutti i tempi conosceva oltre trenta lingue, GH grande scrittore conosce l’inglese) propendo per quest’ultima ipotesi.
Da Lalibelà la ricerca si sposta al lago Tana. Al monastero di Tsana Qirqòs GH ha un brivido di eccitazione quando scopre che vi sono ancora oggi degli altari di pietra usati per i sacrifici dagli ebrei in tempi lontanissimi:
Pietre cave sull’isola di Tana Kirkos, dal libro di GH
In verità queste pietre erano già state descritte nella Guida dell’Africa Orientale Italiana del 1938 a pag. 382 e non sono una novità, come potrebbe apparire dal libro.
Il viaggio prosegue al lago Zuai, dove l’Arca era stata portata nel X secolo per sfuggire alle distruzioni di Gudit. Qui GH ci fa sapere che, prima di entrare nella chiesa dell’isola di Debra Tsion, va dietro un cespuglio a fare pipì:
Oltrepassai rapidamente la delegazione di monaci che era lì ad accoglierci, sparii dietro al cespuglio più vicino e ne riemersi qualche minuto dopo sentendomi decisamente meglio.
Non mi era mai capitato prima di leggere queste cose di uno studioso.
Ad Aksum abbiamo un’affermazione davvero incredibile: Questo particolare tipo di croce, come sapevo bene, non era molto comune in Etiopia… (pag. 47): si tratta della croce scolpita davanti la leonessa di Gobedrà, v. più avanti. Questa croce è comunissima, è la croce dei monaci etiopici, si trova scolpita anche sulla facciata della Madre di tutte le chiese d’Etiopia, Mariam Tsion ad Aksum:
Questa croce è comune anche come decorazione nelle croci processionali etiopiche:
Croce processionale etiopica
La conclusione della ricerca di GH è che L’Arca sia davvero custodita ad Aksum. Ricerca che è tutta imperniata sulla “possibilità che…”:
- ... ero naturalmente attratto dalla possibilità che… pag. 17 - La possibilità che questi uomini potessero essere Templari… pag. 143 - Se questa congettura risponde al vero… pag. 306 - … la mia conclusione si sarebbe rivelata completamente falsa se si fosse dimostrato… pag. 330
Il metodo di ricerca di GH è magistralmente descritto dall’americano Garrett Fagan, professore di storia antica alla Pennsylvania State University, con questo esempio::
D: Hai mangiato quell’ultimo pezzo di torta al cioccolato? R: No. D: Ma ci sono briciole sui tuoi pantaloni e segni di cioccolato sulle tue labbra. Sembra che la torta tu l’abbia mangiata. R: Forse. Ma qualcun altro potrebbe aver mangiato la torta e poi sporcato le mie labbra e lasciato le briciole sui miei pantaloni. D: Hai qualche prova di quello che dici? R: No. Ma è una possibilità. D: OK, ma perché non ti sei opposto a quello che ti stava facendo quell’altro? Q: Forse non lo potevo fare. D: Mi puoi dimostrare che non lo potevi fare? R. No. Ma è una possibilità.
Il quale conclude: With such a mode of argument, are we in the world of reason or a Monty Python sketch? Con questo tipo di argomentazione, usiamo la ragione o siamo nel mondo di Monty Python?
In definitiva, un bel romanzo ma non una ricerca storica, nonostante i suoi nove anni e le cinquantun pagine finali fitte di note. Vi sono, fra l’altro, alcune inesattezze, come ad. es. che Sylvia Pankhurst aveva eroicamente combattuto nella resistenza abissina durante l’occupazione italiana dell’Etiopia (pag. 26), che il Chebra Neghèst è del XIII sec. (pag. 27), che il Ras Dasciàn è perennemente coperto di neve (pag. 34), che il Ras Dasciàn è il quarto monte più alto dell’Africa (pag. 34: il gruppo del Ruwenzori in Uganda ha sette monti più alti del Ras Dasciàn), che il regno di Aksum si è convertito al Cristianesimo nel 331 (pag. 14: la conversione avvenne intorno al 345), che la croce si trova davanti e non dietro la leonessa di Gobedrà (pag.439):
La croce scolpita davanti la leonessa di Gobedrà
E un grossolano errore di traduzione a pag. 183, dal Frammento 67 di Eschilo:
… un lago color rame… che è il gioiello dell’Etiopia, dove il sole che tutto pervade torna infinite volte a immergere le sue forme immortali e trova conforto al suo triste peregrinare in dolci ondulazioni che sono come calde carezze.
La traduzione corretta è:
… questo lago dai riflessi di rame… fonte di ricchezze per l’Etiope, dove il Sole, che vede ogni cosa, viene a immergere senza cessa il suo corpo immortale, ed a temprare, per le calde abluzioni di un’acqua dolcemente penetrante, l’ardore de’ suoi corsieri affaticati. (Conti Rossini Storia d’Etiopia pag. 56)
Ma GH alle inesattezze ci ha abituati con il suo opuscoletto Historic Ethiopia, quando ad es. afferma che l’abuna Aregaui era stato aiutato da S. Gabriele per salire a Debra Damo (pag. 54), che la spedizione di Francisco Àlvarez era venuta in Etiopia per avviare la conversione al cattolicesimo dei cristiani di Abissinia (pag. 67), che Richard Burton era un avventuriero quando è andato ad Harar (pag. 107), che Rimbaud ad Harar scriveva versi erotici (pag. 111), ecc. ecc. ecc.
Alberto Vascon, marzo 2009
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