AFEWORK GHEVRE JESUS, considerato uno dei padri della moderna letteratura etiopica, viene qui ritratto in uno studio di Gian Carlo Stella apparso su: “AFRICA”, Rivista trimestrale di Studi e Documentazione dell’Istituto Italo-Africano”, Roma, Anno XLI, N. 4, Dicembre 1986, pp. 581-602.

 
 
Un personaggio amletico: Afework Ghevre Jesus (1868-1947)
Prima parte

di Gian Carlo Stella ([i])

 

Lo scrittore e diplomatico etiopico Afework Ghevre Jesus (Afa-Warq Gabra-Iyasus) ([ii]) viene sempre più frequentemente evocato o citato, sia in campo letterario sia in campo storico. Nella realtà fu un uomo complesso e tuttora rimane un personaggio di non facile lettura, che la recente storiografia ritrae in aspetti contrastanti.

Senza dubbio la sua posizione fu anomala, avendo egli trascorso in Italia, a più riprese, circa un quarto di secolo ed avendovi sposato una italiana che gli diede quattro figli (due dei quali prestarono servizio nell'esercito italiano). Visse inoltre proprio nel periodo in cui l'Italia si scontrò militarmente due volte con l'Etiopia e, in entrambe quelle occasioni, egli venne ad essere spettatore-attore tra i belligeranti. Infine gli incarichi, anche delicati, che di volta in volta gli vennero attribuiti dai due governi - quello etiopico e quello italiano - oltre a certe particolari scelte da lui operate in quelle occasioni, gli procurarono serie difficoltà che furono in sostanza espressione della sua condizione di uomo rimasto ancorato tanto alla sua patria, quanto a quell'Italia per la quale, sin da giovane, nutrì non poche propensioni.

I suoi indubbi meriti letterari, che lo hanno posto tra i padri della moderna letteratura etiopica ([iii]) per la di lui prosa amarica considerata pura ed elegante nonché per le sue idee in favore dell'ammodernamento della sua patria, sono accompagnati anche dalla fama di attento testimone di molti avvenimenti etiopici da lui narrati ([iv]). Ma quest'ultima fama sembra eccessiva e, a nostro modo di vedere, ha tratto in inganno quegli studiosi che hanno liberamente attinto ai suoi scritti senza sottoporli ad accurata critica storica. In verità, dai nostri controlli risulta che quegli scritti vanno utilizzati con cautela sul piano della storiografia, perché l’Afework storico non ha il valore dell'Afework letterato: la sua fama di scrittore elegante e modernista, unita a quella di «fondatore» del romanzo amarico, non debbono dunque far velo agli storici. Basti un solo esempio: nel suo «Menelik II», Afework scrive che la battaglia di Adua si svolse il 23 aprile 1986 ([v]), mentre è noto che essa ebbe luogo domenica 1° marzo 1896; inoltre, dopo aver parlato dei numerosi militari italiani caduti in quella battaglia, egli, senza fondamento, aggiunge: «Il comandante in capo [cioè il generale Oreste Baratieri], però, stando su un cavallo ben nutrito, compì in un giorno il cammino di tre giorni e si salvò» ([vi]). E se altre consimili inesattezze possono scusarsi quand'egli narra fatti ai quali non assistette, invece non si capisce perché non abbia cercato, quando descriveva avvenimenti di cui fu testimone, di riferirli proprio come li vide.

Nel tracciare questo breve ritratto di Afework ([vii]), abbiamo cercato di raccogliere e coordinare le notizie - sparse un po' dovunque - che lo concernono, anche quelle relative al periodo che precedette il conflitto italo-etiopico del 1896. Del resto, questo periodo giovanile sembra essere pochissimo noto ai rari studiosi che si sono occupati di lui e perfino ai suoi figli tuttora viventi, come abbiamo avuto modo di osservare esaminando una voluminosa opera inedita scritta da suo figlio Giovanni ([viii]).

Ciò che segue è quindi un semplice profilo, forse anche qua e là lacunoso, che tuttavia ci auguriamo possa servire di traccia quando un giorno verrà scritta una vera e propria biografia.

* * *

Figlio di un agiato possidente di terre e di armenti ([ix]), Afework nacque nel 1868 a Zeghié (Zagé), località dell'omonimo promontorio sovrastante la parte più meridionale della sponda occidentale del lago Tana (o Tsana). Sin dal 1880, quando era ancora un fanciullo, egli visse alla corte di Menelik, regolo dello Scioa (non ancora «re dei re» di tutta l'Etiopia), pare chiamatovi dalla regina Taitù anche lei proveniente dalla zona in cui era nato il ragazzo e, a quanto si diceva, sua lontana parente.

Nello Scioa, il giovane non si sottrasse all'interesse destato in molti Etiopi dagli europei che in quegli anni affluivano alla corte scioana spinti da vari moventi, politici ed economici. Afework si fece allora amico del conte Pietro Antonelli ([x]) che, giunto colà nel 1879, era dapprima entrato nelle simpatie di Menelik e poi, quale rappresentante del governo italiano, aveva concluso con il sovrano scioano il trattato di amicizia e commercio di Ankober del 21 marzo 1883, seguito dal trattato di amicizia e di alleanza di Addis Abeba del 20 ottobre 1887 ([xi]). A richiesta o con l'assenso di Menelik, Antonelli decise allora di accogliere Afework come ospite suo a Roma ([xii]), per avviarlo verso qualche istituto italiano in cui potesse frequentare corsi di pittura, forma d'arte verso la quale il giovane sembrava portato ed alla quale appariva desideroso di darsi ([xiii]).

Così nel luglio 1887, munito di doni da presentare alle autorità italiane, seguendo la via dell'Aussa con una carovana di mercanti, Afework raggiunse Assab dove si unì al fratello del R. commissario civile Salvatore De Simone col quale si portò a Massaua; lì la mattina del 22 settembre 1887, prese imbarco sul piroscafo San Gottardo ([xiv]) che lo sbarcò a Napoli il 4 ottobre dello stesso anno ([xv]). Accompagnato a Roma, venne ricevuto dal re Umberto I al quale presentò alcuni doni del suo sovrano ([xvi]); venne poi ricevuto da altre autorità e pare che in quelle circostanze offrisse doni anche al ministero di agricoltura e commercio ([xvii]).

Nel corso di quel suo primo soggiorno italiano, preferì rinunciare al tradizionale vestiario etiopico per indossare abiti di foggia europea di colore scuro. Visitò artisti, monumenti, musei e chiese, «dovunque diventando nervoso perché tutti lo guardavano». Ascoltò messa in varie chiese ed in una di queste, per meglio osservare gli affreschi, si arrampicò su alcune sedie messe l'una sopra l'altra, rischiando di fare «un solenne capitombolo». Il giornalista Giuseppe Piccinini, cultore del pettegolìo minuto, aggiunge che con i primi freddi gli venne confezionato un vestito di zigrino (ossia a righine) blu e che egli si assuefò rapidamente al vestire europeo, sebbene le scarpe gli dessero fastidio per qualche tempo ([xviii]).

* * *

Non potendo la famiglia Antonelli ospitare Afework indefinitamente ([xix]), il governo italiano provvide a trasferirlo all'Istituto Internazionale di Torino, città in cui egli frequentò i corsi di pittura dell'Accademia Albertina di Belle Arti.

Nel capoluogo piemontese rimase - non si sa se con poco o molto profitto nell'arte pittorica - fino al 1889, l'anno in cui, dopo la morte in combattimento del negusa nagast Yohannes (Giovanni IV) avvenuta il 10 marzo di quell'anno, Menelik potè proclamarsi lui «re dei re» e poco dopo concludere con Antonelli il trattato di Uccialli (Weččalé) del 2 maggio 1889; a questo trattato fece seguito l'invio in Italia della missione etiopica guidata dal değazmāč (poi rās) Makonnen (cugino di Menelik e padre del futuro imperatore Haile Sellasié), il quale firmò con le autorità italiane la convenzione addizionale di Napoli del 1° ottobre 1889 ([xx]).

Fu in quei mesi che Afework lasciò Torino (per decisione sua o a richiesta di Makonnen?) e, in qualità di interprete, si aggregò alla missione etiopica, probabilmente a Roma, seguendone tutti gli spostamenti in Italia dall'agosto al novembre di quell'anno ([xxi]).

Infine Afework decise di rimpatriare con la stessa missione, ma i motivi precisi che lo spinsero al rimpatrio non sono noti: riteneva forse di aver finito il suo tirocinio artistico? Oppure stimava di dover abbandonare la pittura per intraprendere qualche altra forma di attività come, per esempio, il farsi strada nella corte del suo sovrano? Gli erano state fatte offerte in tal senso? Domande alle quali oggi non sembra possibile rispondere.

* * *

Per il governo italiano, la venuta della missione etiopica guidata da Makonnen aveva segnato il culmine della cosiddetta «politica scioana», coronata appunto dalla convenzione addizionale di Napoli. Ma presto i rapporti fra i due paesi presero a deteriorarsi, cosa di cui si accorse subito il conte Augusto Salimbeni che, inviato quale residente italiano presso la corte di Menelik, aveva accompagnato fino a Massaua la missione etiopica nel suo viaggio di ritorno in Africa ([xxii]).

Dopo aver raggiunto Massaua negli ultimi giorni del 1889, la maggior parte della missione (i cui membri erano quasi tutti residenti nel hararino) ne era ripartita per mare qualche settimana più tardi per fare rientro, via Zeila, a Harar ([xxiii]).

Da Harar, qualche mese dopo, Afework si portò ad Addis Abeba dove giunse l’11 luglio 1890 e dove, il 13, fece visita a Salimbeni a Entotto, nelle immediate vicinanze della capitale. Portava con sé alcune grandi pitture di argomento religioso che la regina Taitù aveva ordinato in Italia e che erano state eseguite in tutta fretta a Roma dal pittore Jacovacci; sebbene esse fossero in pratica un dono del governo italiano alla regina d'Etiopia, correva voce che Taitù non volesse gradirle considerandole «bruttissime», ma in realtà per non accettare un dono italiano in quel difficile momento. Infatti, oltre alle note discussioni sull’Art. 17 del trattato di Uccialli (quello del famoso «protettorato»), andava profilandosi un nuovo dissidio circa la linea confinaria che avrebbe dovuto separare l'Eritrea dall'Etiopia.

Per superare il clima ostile all'Italia creatosi a corte, Salimbeni contava sull'aiuto del dott. Leopoldo Traversi, medico, da tempo residente nello Scioa e bene accetto a corte ([xxiv]); ma ritenendo insufficiente questo appoggio, si era rivolto al grazmāč Yosiéf Negussié (il noto traduttore del trattato di Uccialli) chiedendogli, tra l'altro, di procurargli un'udienza particolare con la regina Taitù; accortosi tuttavia che Yosiéf, intimorito dalla piega degli avvenimenti, tentennava, Salimbeni si rivolse ad Afework che godeva della fiducia della sovrana e che assolse bene il compito: Salimbeni venne ricevuto dalla regina il 3 agosto 1890 ed anche le tele del pittore Jacovacci vennero «gradite»; così esse poterono essere attaccate da Afework alle pareti della chiesa dedicata a Māryām (Santa Maria) in Entotto, fatta costruire dalla stessa sovrana ed a lei particolarmente cara ([xxv]).

Malgrado ciò, i rapporti italo-etiopici non cessarono di deteriorarsi. Non sembra necessario rievocare qui avvenimenti assai noti, bastando ricordare che, non essendo stato possibile risolvere la spinosa controversia circa il suddetto art. 17, l'11 febbraio 1891 si giunse alla rottura formale dei rapporti italo-etiopici, per cui i tre rappresentanti italiani, Antonelli (rispedito intanto allo Scioa nell'intento di risolvere il dissidio), Salimbeni e Traversi, si ritirarono dal territorio etiopico ([xxvi]).

Il solo Traversi tornò qualche mese dopo allo Scioa, per incarico della Società Geografica Italiana, preoccupata di salvare soprattutto la stazione geografica di Let-Marefià; l'8 ottobre 1891 Traversi raggiunse la stazione dove riprese le sue funzioni di direttore, ostentando indifferenza per le questioni politiche, fino a quando Menelik lo convocò ad Addis Abeba; raggiunse la capitale il 1° novembre ed ebbe con il sovrano tre lunghi colloqui; l'ultimo di questi colloqui - del tutto confidenziale perché in esso si cercò di superare la divergenza principale, quella relativa al famigerato art. 17 - si svolse senza testimoni, tranne Afework, «che di quando in quando mi aiutava come interprete» precisò Traversi (il quale aveva una discreta, ma non perfetta, conoscenza dell'amarico avendo soggiornato a lungo in Etiopia) ([xxvii]). Tuttavia anche questi contatti furono infruttuosi: il dissidio non venne appianato e Traversi rientrò in Italia.

Seguirono, com'è noto, anni difficili, contrassegnati dal convegno del Mareb (8 dicembre 1891) che registrò la flessione italiana verso la «politica tigrina» (e poi verso quella del «doppio binario», in precario equilibrio fra quella scioana e quella tigrina), dalla missione Traversi alla Scioa (1893-94), e infine dalla missione Piano (1894), che videro consumarsi la definitiva rottura fra Menelik e l'Italia ([xxviii]). Di quelle difficoltà Afework fu certamente testimone oculare per circa un quinquennio (1890-1894), in Addib Abeba, ma nulla si sa dei suoi sentimenti e dei suoi atteggiamenti in quel periodo. Sappiamo solo che in quegli anni egli strinse amicizia con un personaggio destinato ad esercitare un'influenza decisiva sulle relazioni dell'Etiopia con le potenze europee: l'ingegnere svizzero Alfred Ilg, divenuto allora consigliere di fiducia di Menelik. Sembra anzi che in quel periodo Afework abbia contratto matrimonio con la figlia di Ilg, nata dall'unione dell'ingegnere con una etiopica ([xxix]), ma i particolari di quel matrimonio mancano ([xxx]).


 

[i] Studioso di storia del Corno d'Africa e di politica coloniale italiana.

[ii] La forma Afevork Ghevre Jesus (spesso abbreviata in G.J. Afevork) ha la grafia da lui stesso adottata in Europa, mentre la forma Afa-Warq Gabra-Iyasus segue la grafia di solito usata dagli studiosi, secondo un diffuso sistema di traslitterazione scientifica. Conviene inoltre ricordarsi che Afa-Warq è un nome composito (significa «Bocca d'oro», ossia Crisostomo), così come composito è pure il nome Gabra-Iyasus («Servitore di Gesù») che è quello del padre dello scrittore (gli Etiopi, infatti, non hanno cognome o nome di famiglia, usando in sua vece il patronimico).

[iii] L'altro scrittore, suo contemporaneo, che condivide con lui la fama di precursore nel campo della moderna letteratura in lingua amarica, è Heruy Walda-Sellàsié (1878-1938) sul quale si veda S. tedeschi, La carrière et les idées de Heruy Walda-Sellàsié nel volume Trois essais sur la littérature éthiopienne, Paris-Antibes 1984, pp. 39-104 (con bibliografia).

[iv] Ci riferiamo in particolare al suo «Menelik II», opera stampata a Roma nel 1909 di cui si può leggere la traduzione italiana in L. fusella, II «Dāgmāwi Menilek» di Afawarq Gabra Iyasus, «Rassegna di Studi Etiopici», XVII (1961), pp. 11-44 e XIX (1963), pp. 119-149.

[v] Ibidem, p. 140.

[vi] Ibidem, p. 142.

[vii] Non si conoscono biografie di Afework, ma soltanto gualche cenno biografico. Cf. G. puglisi, Chi è? dell'Eritrea (1952): Dizionario biografico, Asmara, Agenzia Regina, 1952, pp. 6-7; O. calvi, Luci nella sconfitta, Torino, Marietti, 1955, pp. 5-25 (da ricordi del figlio di Afework, Giovanni, il cui nome però non appare). Si veda anche: Un amico da ricordare [Afework Ghevrejesus], «Il Reduce d'Africa» (Milano), XVIII/6 (giugno 1976), p. 8.

[viii] giovanni ghevre jesus, Dall'Etiopia imperiale all'impero rosso:  Cenni storici - arte - vita quotidiana - folklore, in 8°, 687 pp., con 22 fotografie e 13 cartine in 25 tavole f.t. (inedito).

[ix] Di suo padre si sa che era vivo sul finire del 1887 poiché a quella data il figlio, dall'Italia, soleva scrivergli. Cf. G. piccinini, Guerra d'Africa, in 8° a due colonne, Roma, Perino, 1887, p. 1120. È utile ricordare che l'opera del Piccinini, edita in quell'anno, constava di tre volumi (con paginaz. continua) per complessive 1200 pp. (400 pp. al volume) con numerose illustrazioni; l'anno successivo venne continuata con un quarto volume (400 pp. con paginaz. separata) recante lo stesso titolo ed il sottotitolo Campagna del 1888; tutta l'opera venne scritta e distribuita a puntate (4 dispense per settimana) ed ebbe quindi carattere popolare; non aveva scopi scientifici (lo stesso autore, in calce al vol. IV, nella nota di commiato, la definisce uno «zibaldone» di notizie riportate alla rinfusa), ma in essa si possono spigolare notizie di cronaca spicciola e rilevare illustrazioni ed incisioni che non ricorrono altrove; nella cornice del presente studio va segnalato che a p. 57 del vol. IV si trova una grande incisione (apparentemente derivata da una fotografia scattata in Italia) che ritrae Afework vestito secondo la foggia etiopica; salvo errore, questo ritratto di Afework ventenne è il primo che di lui si conservi.

[x] Pietro Antonelli (1853-1903), appartenente ad una nota famiglia patrizia romana, era giunto allo Scioa al seguito del conte Sebastiano Martini-Bernardi (1834-1911); se ne veda un profilo in puglisi, op. cit. pp. 18-19.

[xi] Questi due trattati sono riportati anche in C. rossetti, Storia diplomatica dell'Etiopia durante il regno di Menelik II, Torino, S.T.E.N., 1910, pp. 7-33 (con un corredo di documenti connessi).

[xii] In quel tempo Pietro Antonelli risiedeva al n. 84 di Via Alessandrina in Roma.

[xiii] La notizia della venuta in Italia di Afework venne riportata  dalla  stampa; alcuni scrissero che era «principe» o «nipote di Menelik», storpiandone in genere il nome in Workù o Affa Worku; (cf. L'Esplorazione Commerciale (Milano), II/9 (settembre 1887), p. 315, ed anche Ballettino della Sezione Fiorentina della Società Africana di Italia, fase. 7° (20 ottobre 1887), pp. 224-225.

[xiv] Da non confondere con il Gottardo, noto allora per avere trasportato il primo contingente militare italiano che aveva occupato Massaua il 5 febbraio 1885.

[xv] Durante il tragitto Massaua-Napoli, il piroscafo aveva effettuato una deviazione verso la Terra Santa per condurvi il prelato abissino Ghiorghis (diretto a Gerusalemme) il quale era stato trattenuto per qualche tempo dal comando italiano di Massaua nell'intento di scambiarlo con i prigionieri italiani caduti nelle mani del ras Alula. L'arrivo a Napoli di Afework destò curiosità e qualche giornale ne pubblicò un ritratto che, anni dopo, venne riprodotto nel volume La guerra italo-abissina, Milano, Treves, 1896 (fasc. 6, febbraio 1896, p. 46), pubblicazione uscita anch'essa in dispense durante la prima guerra italo-etiopica.

[xvi] Doni apparentemente modesti: «Un berretto Assab, pelli di leone, di leopardi e di cammello, queste ultime istoriate [?], scudi, lance, sciabole, targhe, elmetti, tutti in argento, una collana di argento filato detto "elsemel-bal", bandoliere per fumatori in cui si ripongono le pipe e il tabacco, 45 bicchierini di corno d'ippopotamo, uno sciamma, ricchissimo mantello di stoffa bianca e rossa, una spada con fodero d'argento, con impugnatura anche d'argento con intarsi d'avorio»; così piccinini, op. cit., p. 1122, da una corrispondenza del Piccolo di Roma.

[xvii] Secondo Piccinini, Afework offrì al Ministero di agricoltura e commercio un gabbione con due gorilla, ma la notizia è dubbia non soltanto perché l'Etiopia non ha mai avuto né esportato queste scimmie, ma anche perché non si vede come nel 1887 il giovanissimo Afework avrebbe potuto, con un gabbione di gorilla, attraversare il deserto della Dancalia, il Mar Rosso e il Mediterraneo. Inoltre qualche autore scrisse che Afework venne anche ricevuto dall'on. Depretis, ma la notizia è sicuramente priva di fondamento: Agostino Depretis (che al momento del suo decesso era Presidente del Consiglio e Ministro degli esteri) scomparve il 29 luglio 1887 e quindi non può aver visto Afework giunto in Italia soltanto nell'autunno di quell'anno.

[xviii] piccinini, op. cit., III, p. 1120.

[xix] Il solito Piccinini (ibidem, p. 1122) asserisce: «Il conte Pietro Antonelli lo aveva inviato alla sua famiglia perché ne prendesse cura; ma essendosi questa rifiutata a riceverlo, il governo ha dovuto incaricarsene e lo ha mandato in un collegio del Piemonte, dove potrà liberamente studiare pittura, per cui ha una immensa passione». Cf. anche il citato «Bullettino della sezione Fiorentina della Società Africana d'Italia», p. 225.

[xx] Tanto il trattato di Uccialli quanto la convenzione addizionale di Napoli possono rileggersi in rossetti, op. cit., pp. 41-47. La nutrita delegazione etiopica venne ricevuta in Italia con sommi onori, ma comprendeva due soli personaggi di rilievo: il dağazmāč Makonnen (governatore di Harar e cugino del Negus) e il grazmāč Yosiéf Negussié (il noto traduttore del trattato di Uccialli), ambedue designati da Menelik; gli altri componenti, tutti di secondo piano, erano stati designati da Makonnen e provenivano da Harar; cf. libro verde XV bis, Etiopia (giugno 1889 - marzo 1890), Doc. dipl. presentati al Parlamento, XVI legisl. - 4a sessione (Crispi), Roma 1890, p. 4.

[xxi] Si veda A. bizzoni, L'Eritrea nel passato e nel presente: Ricerche - impressioni - delusioni di un giornalista, Milano, Sonzogno, 1897, p. 205, dove una grande incisione (tratta da una fotografia) ritrae tutta la delegazione etiopica tra i cui componenti appare anche Afework (il solo vestito all'europea); Achille Bizzoni era un noto giornalista, allora definito «ultraradicale», tenacemente ostile all'espansione coloniale italiana. Da segnalare che l'Illustrazione Italiana del 1889 (secondo semestre, p. 221) aveva già pubblicato la predetta incisione, oltre a due ritratti di Afework, uno del 1887 e l'altro del 1889 (ibidem, p. 216).

[xxii] L'ingegnere Augusto Salimbeni (1845-1895) parlava l'amarico avendo soggiornato durante tre anni nel Goggiam per costruirvi un ponte; nel momento in cui venne designato a rappresentare l'Italia alla corte di Menelik, prestava servizio presso il Ministero degli esteri a Roma; cf. G. benvenuti, Vita africana di Augusto Salimbeni, Modena, Tip. Ferraguti, 1942, pp. 115-121.

[xxiii] Tranne però Makonnen che si recò dapprima nel Tigre (per incontrarvi Menelik) e poi ad Entotto (nello Scioa) dove venne creato ras dal sovrano; rientrò a Harar, sede del suo comando, dopo circa un anno di assenza.

[xxiv] Leopoldo Traversi (1856-1949), giunto nello Scioa nel 1885, espletò vari incarichi per la Società Geografica Italiana e per il governo italiano; se ne veda un profilo in puglisi, op. cit., p. 287. Da notare che per anni Traversi mantenne amicizia e corrispondenza con Afework.

[xxv] C. zaghi (cur.), Crispi e Menelik nel diario inedito del conte Augusto Salimbeni, Torino I.L.T.E., 1956, pp. 107-113. Salimbeni, il quale tenne un diario particolareggiato e spregiudicato, scrisse di aver allora donato ad Afework un fucile e di avergli offerto una ricompensa in denaro se avesse convinto Taitù a sistemare in modo favorevole la controversia circa il confine eritreo-etiopico; ma la questione di questa ricompensa non si pose in concreto, poiché la vertenza confinaria non fu risolta e anzi si giunse alla rottura fra Italia ed Etiopia.

[xxvi] La rottura con Menelik venne narrata dagli stessi protagonisti italiani: Antonelli nel suo rapporto ufficiale; Salimbeni nel suo diario (zaghi, op. cit., pp. 295-299); Traversi nelle sue memorie (Let Marefià, Milano, Alpes, 1931, pp. 355-359; e nella seconda edizione riveduta, Roma, Unione Editoriale d'Italia, 1941, pp. 372-376). Diversa e quasi romanzata è la versione che ne diede Afework nel suo Dāgmāwi Menilek (pp. 127-131 della citata traduzione italiana del Fusella), sebbene egli risiedesse allora in Addis Abeba e avesse dimestichezza con i tre italiani.

[xxvii] traversi, op. cit., p. 362 (e p. 390 nell'edizione del 1941).

[xxviii] Per un conciso panorama di quel quinquennio, si può rileggere R. ciasca, Storia coloniale dell'Italia contemporanea, Milano, Hoepli, 1938, pp. 181-195.

[xxix] La notizia del matrimonio di Afework con la figlia naturale di Ilg (il quale era già sposato in patria con una connazionale) era apparsa su qualche giornale e venne poi riprodotta nella già citata La guerra italo-abissina (alla p. 46, nel fascicolo n. 6, del febbraio 1896); è probabile che questa notizia sia stata data dallo stesso Ilg al viaggiatore italiano Augusto Franzoj che in quei giorni era andato ad intervistarlo in Svizzera, nei pressi di Zurigo, per conto del quotidiano Il Messaggero di Roma.

[xxx] Che Ilg avesse in Addis Abeba una seconda famiglia è un fatto noto, attestato anche dalla esplicita testimonianza dell'ufficiale medico Nicola d'Amato, prigioniero di guerra nella capitale etiopica, dopo il rovescio di Adua; chiamato a curare la moglie etiopica di Ilg, il medico italiano conobbe altri familiari dell'ingegnere, tra i quali anche la figlia Berenew, e questo parrebbe quindi essere il nome della prima moglie di Afework; v. N. d'amato, Da Adua ad Addis Abeba: Ricordi di un prigioniero, Salerno, Volpe & C., 1898, pp. 156-158.

 

(Continua)

 

 

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