L’Eritrea per forza e per amore. |
Vita e vicissitudini di un territorio africano. |
Nicky Di Paolo, Gian Carlo Stella e Manlio Bonati |
Indice delle schede |
Antonio Baldissera |
Antonio Rizzo |
Cronologia 1800-1868 |
Giovanni Branchi |
Giovanni IV |
Guglielmo Massaja |
Il Tallero di Maria Teresa |
Ras Alula |
3. Da Dogali all’Asmara. | ||||||||||||||
Per procedere con chiarezza nella nostra storia è indispensabile a questo punto fare alcune riflessioni, altrimenti si rischia di creare confusione e non riuscire a comprendere bene il senso delle cose. Prima di tutto è giusto chiedersi per quale ragione la giovane Italia inseguiva l'obiettivo coloniale. A prima vista a questa domanda non sembra difficile rispondere; tuttavia va tenuto presente che l'Italia appena nata era poverissima e che in patria vi erano progetti vitali da portare avanti quali ad esempio la bonifica del Polesine e della Maremma: non era quindi semplice, almeno all'inizio, sostenere il progetto espansionistico che necessariamente doveva avvalersi di notevoli investimenti di denaro. Fu allora che nacquero, sia a livello parlamentare che popolare, gli africanisti e gli anti-africanisti che si batterono per i 50 anni successivi opponendo ciascuno, di volta in volta, le proprie ragioni. Purtroppo al momento attuale non riusciamo a dare risposte oneste ad una massa di quesiti che lo studio della storia impone. Proprio a tale proposito è indispensabile sottolineare che la avventura coloniale italiana è stata sempre - e lo è ancora oggi - volutamente trascurata: non esistono in pratica studi seri sul colonialismo in tutte le università italiane, gli archivi storici governativi sono, per questo argomento, per lo più inaccessibili o addirittura in buona parte distrutti; sporadiche e pregevoli iniziative di singoli non riescono in genere a portare alla luce un quadro chiaro e completo della storia delle nostre colonie e a diffonderlo. A distanza di circa 60 anni dalla fine della guerra c'è ancora una volontà ferrea di nascondere oppure di parlare male del colonialismo: perché? Dobbiamo allora dare ragione a quegli storici stranieri che ci accusano di occultare il tutto perché abbiamo gli armadi pieni di scheletri? E' molto probabile che le nostre campagne militari dirette a conquistare colonie si siano macchiate di qualche barbarie: prendiamone atto una buona volta e facciamola finita, altrimenti rischiamo di perdere la memoria di tutti quei fatti esaltanti che hanno caratterizzato il lavoro dei nostri padri e dei nostri nonni, memoria che invece non può essere persa a causa di possibili crudeltà perpetrate da alcuni militari. Non essendoci documentazioni sufficienti (tutta la massa di scritti che vanno dal 1915 al 1940 e che si riferiscono a cronache di quel periodo e a fatti antecedenti non sono molto attendibili) proviamo a fare delle ipotesi di interpretazione. Secondo noi l'Italia andò in Africa perché era di moda andarci: infatti dopo il Congresso di Berlino l'Inghilterra, la Francia, la Russia, la Prussia e l'Italia si definirono "Potenze", assegnandosi fra l'altro poteri espansionistici anche se Bismarck definì l'Italia come "la più grande delle piccole potenze e la più piccola delle grandi potenze" (definizione che verosimilmente è tuttora valida). Verso la fine dell'ottocento l'Inghilterra era la più grande potenza coloniale; la Francia, il Portogallo e le altre nazioni europee le correvano appresso, mentre l'Italia e la Germania, per ragioni diverse erano state fino allora fuori dai giochi: il meglio del mondo colonizzabile era già stato occupato, ma attendere ancora probabilmente voleva dire addio a qualsiasi aspirazione coloniale. I nostri governanti inoltre avevano problemi politici non indifferenti e spostare l'attenzione su fatti esterni è stato sempre un accorgimento vincente: Crispi, che di problemi ne ha avuti più di tutti, non a caso è stato il più arduo sostenitore dell' avventura africana, osteggiato alla grande dall'allora ministro degli esteri Bertolè-Viale. Infine, ma non certo quale ultima ragione, buona parte degli italiani senza lavoro e senza prospettive per il loro futuro, vedevano, nell'espatrio in terre nuove e vergini, fantastiche possibilità di occupazione e di arricchimento; i media di allora continuavano a osannare le colonie inglesi ricche di oro, diamanti, minerali, pascoli, cose che non potevano far altro che spingere gli avventurosi a lasciare il niente per ambiziosi sogni. Possiamo ora tornare ad occuparci della nostra storia che dopo la ripresa di Sahatì prosegue con una interminabile serie di mosse diplomatiche tendenti da parte del governo italiano a stringere un'amicizia ferrea con Menelik nello Shoa e al contempo intrigare per dividerlo da Giovanni, negus neghest di tutta l'Abissinia: questo ultimo era impegnato, dopo la ritirata da Sahatì, a fronteggiare i Dervisci. Questi bellicosi seguaci del mahdi, dopo aver fatto sgombrare gli egiziani dal Sud del Sudan, continuavano a razziare i territori intorno al lago Tana, pericolosamente vicini a Gondar che spesso raggiungevano apportandovi morte e distruzione ed erano tanto forti da riuscire perfino a sconfiggere gli inglesi. Come abbiamo già detto, Menelik, governante di buona scaltrezza non si fece né intimorire, né tantomeno raggirare dai nostri ambasciatori o plenipotenziari, ma manovrò così astutamente che da una parte appariva porsi al fianco di Giovanni e dall'altra badava a blandire gli italiani che gli assicuravano l'appoggio per conquistare il trono di tutta l'Etiopia ed infine fu tanto abile da riuscire a mantenere importanti rapporti con l'Inghilterra e la Francia; l'astuzia di Menelik sta nel fatto che riuscì sempre in un modo o nell'altro a ricevere da tutti una quantità enorme di armi: non si contentava adesso di pochi fucili, ne pretendeva a migliaia con l’aggiunta di svariati cannoni.
Nell'epistolario che ancora è reperibile, le lettere di Menelik e di Giovanni sono, per stile letterario, molto simili a quelle scritte dal nostro Re e dai suoi ministri, e quindi sicuramente trascritte da consiglieri o inviati italiani, mentre i contenuti da una parte rivelano l'intelligenza abissina del dare poco per cercare di ottenere tanto e dall'altra la cultura politica italiana: blandire, comprare, ma mai aprirsi sui reali temi programmatici. Tra il 1887 ed il 1889 scorse un periodo di tempo importante per la colonia italiana che tendeva ad espandersi impercettibilmente verso l'altipiano senza in pratica venire ostacolata dagli eserciti etiopici: quello di re Giovanni era infatti impegnato con le truppe del madhi con le quali si scontrò violentemente il 10 marzo 1889 a Metemma, a nord-ovest del lago Tana, e lì il re vi perse la vita; l'esercito di Menelik fece finta di sorreggere Giovanni, ma appena questo cadde si impegnò con tutte le sue forze a conquistare tutta l'Abissinia fronteggiando l'erede di Giovanni, ras Mangascià; Menelik ne ignorò l'investitura (promossa fra l'altro da ras Alula) e si autoproclamò Imperatore d'Etiopia.
Prima di parlare dell'espansione italiana dobbiamo ritornare ancora ad occuparci di ciò che stava accadendo a Massaua dopo la ripresa di Sahatì. L'arrivo ininterrotto dei coloni, la costruzione del porto, dell'ospedale, della fabbrica del ghiaccio (dove ha svolto il suo primo lavoro come carpentiere il nonno di Nicky), delle saline, l'impianto dei primi generatori di elettricità, le disposizioni comunali e sanitarie che regolavano la nascita e l'esercizio del commercio e dell'artigianato, diedero l'impulso allo sviluppo di Massaua che mantenne il suo romantico stile moresco ed arabo (le case costruite con un nucleo centrale e circondate da terrazzi coperti e rivestiti di musciarabìe, permettevano una certa areazione) e diede spazio alla popolazione indigena con riguardi particolari agli ascari ed alle loro famiglie che erano protetti da appositi decreti legislativi che concedevano loro, fra l'altro, notevoli privilegi sociali. A nostro parere la creazione del corpo degli ascari rappresenta la migliore delle opere che in quel momento la nuova colonia riuscì a produrre: un'abbondanza di soldati valorosi da impiegare nelle terre africane. A parte il fatto che riuscirono davvero a dare vita ad una grande e coraggiosa forza militare, questi nuovi soldati hanno rappresentato non solo la pietra miliare su cui l'Italia ha fondato la propria forza bellica africana ma anche il nucleo sociale attorno al quale si sono integrate le numerose e frammentarie etnie che popolavano allora le coste africane del sud del Mar Rosso. Questi nuovi soldati italianizzati e costretti a vivere uniti e con le proprie famiglie in caratteristici villaggi costruiti appositamente alle periferie delle città, costituirono quella struttura sociale che da una parte permise l'integrazione fra la cultura occidentale e le culture tradizionali africane e dall'altra diede il via alla nascita dello stato eritreo. Gli ascari, molto fieri del loro ruolo e consci delle proprie capacità, diventarono in breve un simbolo che aveva un fortissimo richiamo: infatti non sono mai esistiti problemi di arruolamento, anche dopo dolorose sconfitte; gli italiani potevano permettersi una rigorosa selezione nella quale fra l'altro venivano preferiti i mussulmani che non avrebbero avuto eccessivi problemi morali a battersi con i nemici etiopici che erano abissini cristiani. E sono proprio questi ascari, organizzati in battaglioni o in bande, che vennero utilizzati con poca truppa ed ufficiali italiani nelle puntate esplorative verso la Dancalia , verso Cheren e verso l'altipiano di Asmara. Gli italiani, nelle colonie ed in patria, sono stati sempre fieri degli ascari e nei decenni successivi lo stesso fascismo esaltò il mito del "fedelissimo ascaro" e ne fece un punto d'onore. Gli italiani a Massaua quindi avevano tutte le condizioni per prosperare, se non fosse stato il clima estivo a fiaccare gli entusiasmi anche più accesi. Massaua, attraversata dall'equatore termico, è uno dei posti più caldi del mondo: a quei tempi, durante l'estate, i ventilatori, i lenzuoli appositamente bagnati, ed il ghiaccio non riuscivano a lenire il terribile caldo e l'incredibile umidità che non lasciava tregua neppure di notte. Vita durissima quindi per chiunque avesse da lavorare; i nuovi coloni giocarono un ruolo non indifferente nello spingere i militari a puntare verso l'altipiano: gli esploratori riportavano notizie di un clima eccezionale verso i villaggi di Cheren e di Asmara, dove di notte era necessario dormire con le coperte e di giorno temperature sui 20-25 gradi creavano un clima primaverile. Il 2 maggio 1888 il generale Di San Marzano salpava per rientrare in Italia e con lui la maggior parte del corpo di spedizione che aveva partecipato alla incruenta ripresa di Sahatì: rimaneva a disposizione del generale Baldissera, che succedeva nel comando, un corpo di seimila uomini. Baldissera rivolse la sua attenzione all’organizzazione della vita civile e militare, arruolando personale locale per formare un corpo di ascari indigeni. Pochi mesi dopo il suo insediamento, Baldissera, sfruttando il contenuto di una lettera inviatagli dal naib di Zula (piccolo borgo marino a sud di Massaua ed all’estremo nord della Dancalia) in cui richiedeva la protezione dell’Italia dalle scorrerie dei dancali, inviò un drappello della marina a bordo del “Mestre” ed occupò Zula, fra la festa della popolazione e le salve dei cannoni della nave da guerra , proclamandola protettorato italiano. La facile occupazione di Zula suscitò in Italia e a Massaua notevole entusiasmo e mentre Crispi annunciava alle potenze straniere la nuova conquista, Baldissera, una settimana dopo, consigliato da informatori, decise di fare una puntata sull’altipiano, con l’idea di raggiungere di notte, con una banda di irregolari, il villaggio di Saganeiti, risalendo il torrente Haddas, e sorprendere il deggiacc Debeb, figlioccio di ras Alula, unico capo abissino che con le sue truppe era a guardia dell’altipiano, nel mentre il resto dell’esercito etiopico era impegnato contro i dervisci. Il letto del torrente Haddas è incassato fra due ripidissimi muraglioni di basalto che si elevano perpendicolarmente per svariate centinaia di metri: la salita prosegue poi per un altro migliaio di metri sul fianco scosceso delle aspre montagne. Le vecchie mappe segnalano il sentiero come inaccessibile ai muli. Una marcia notturna attraverso quel tracciato pare ancora oggi quanto mai difficile, ma il movimento fu eseguito con la rapidità prevista dal capitano Cornacchia e con il suo piccolo esercito composto da quattro ufficiali italiani (tenenti Poli, Viganò, Brero e Virgili), 300 ascari regolari ed altri 500 irregolari. Cornacchia giunse la mattina presto a Saganeiti, trovando il villaggio deserto. Purtroppo se gli italiani avevano contato di sorprendere gli abissini dopo una scalata che, anche se notturna, non poteva essere necessariamente silenziosa, si sbagliarono. Chi ha visto Saganeiti sa che è sprofondata in una valle dominata da un’altura formidabile: proprio lassù si erano posti in attesa gli abissini, forse qualche migliaio, che iniziarono il tiro contro gli italiani. Tutti gli ufficiali vennero uccisi, e con loro sette ufficiali ascari e circa un centinaio tra regolari ed irregolari.
Il fatto produsse profonda impressione in Italia, e Saganeiti segnò un’altra tragica tappa di quell’avventura coloniale. La sconfitta tuttavia non intaccò la volontà del Governo Italiano, e quindi di Baldissera, di salire sull’altipiano, probabilmente entrambi invogliati dagli atti di sottomissione di molti capi dell’Hamasièn che giungevano a Massaua chiedendo protezione e dichiarandosi nemici degli etiopici. Esiste una corrispondenza nutrita fra Baldissera e il ministro Bertolè-Viale e fra questo ultimo e Crispi che continuò per molti mesi. Crispi aveva bisogno di conquiste per rafforzare il suo governo e spingeva Baldissera ad occupare Asmara. Bertolè-Viale invece frenava gli entusiasmi, ammonendo delle conseguenze imprevedibili di una politica conquistatrice in Abissinia. Il suo dubbio principale era quello di come riuscire a mantenere occupati militarmente i nuovi territori conquistati. Dopo la vittoria di Saganeiti, il capo abissino Debeb, avendo saputo della sconfitta del padrino ras Alula a Metemma e del caos derivato in Etiopia dopo la morte di re Giovanni IV, decise di inviare a Baldissera lettere di sottomissione e di pace. A questo punto Baldissera decise di fare una ricognizione su Cheren, anche per tranquillizzare l’impazienza di Crispi. Il 29 maggio 1889 il maggiore Di Maio accompagnato dal capitano di stato maggiore Pietro Toselli partì al comando di una colonna composta da pochi ufficiali e truppa italiana ed un notevole contingente di ascari e attraverso Moncullo, il Canfer, la valle del Lebca e la valle dell’Anseba raggiunse Cheren senza colpo ferire e tra il giubilo della popolazione locale. Cheren (in tigrino “monte”), posto nella valle del Dari a 1392 metri di altezza sul livello del mare, con le sue valli dell’Anseba e del Lebca verdeggianti e ricche di acqua, dal clima mite e dal fertile terreno, era ben diversa dalle aride Massaua, Sahatì e Zula. I militari italiani ritornarono da Cheren entusiasti, e lo stesso Toselli la descrisse illustrandone le possibili vie di accesso da Massaua. Cheren era stata abitata dagli egiziani che avevano costruito il forte ed aveva una grande importanza strategica, posta come era sulla via principale di accesso al bassopiano occidentale ed al Sudan. Il maggiore Di Maio tornò a Massaua dopo aver lasciato a Cheren 600 ascari comandati dal barambaras Cafel. Nel frattempo Menelik, che si era autoproclamato imperatore d’ Etiopia, decise di firmare con l’Italia un trattato. In cambio di armi e munizioni che diceva servirgli per fronteggiare i dervisci e per sconfiggere Mangascià del Tigrai, unico pretendente al trono dell’Etiopia, cedeva all’Italia Halai, Saganeiti, Asmara, Adi-Nefàs ed Adi-Johannes. Menelik pretendeva anche la chiusura di qualsiasi trattativa con Debeb. In questa parte di storia si inseriscono molti personaggi che in qualche modo contribuirono a sviluppare la politica coloniale italiana; tra questi occupa un posto non ultimo il cav. Branchi. Questi spinse all’occupazione dell’Hamasièn e dell’Asmara e rispondeva alle critiche sulla difficoltà dei trasporti (i muli vanno bene sull’altipiano, i cammelli in bassopiano, ma non viceversa) seraficamente “sarebbe facilissimo stabilire fra Massaua ed Asmara dei sistemi di trasporto a trazione aerea o altro per far salire e scendere le mercanzie” e “Massaua sarà provvista non più dal mare ma dall’altipiano e a prezzi decisamente inferiori di quelli italiani”. Baldissera nel frattempo aveva inviato il maggiore Escard con un battaglione misto a costruire la strada Sabarguma-Ghinda, mentre il tratto Sahatì-Sabarguma era stato costruito in precedenza dal battaglione che presidiava Sahatì. Furono scavati pozzi alle acque basse ed alte di Sabarguma, dove furono costruiti anche piccoli forti a difesa dei magazzini e degli stessi pozzi. Baldissera inviò anche altri esploratori ad Asmara per tracciare i percorsi. Ormai era tutto pronto e si attendeva solo l’ordine dall’Italia che giunse il 25 luglio 1889. Il giorno 31 luglio Baldissera lasciava il comando di Massaua al colonnello Albertone e partiva per Asmara alla testa di un piccolo esercito di cui facevano parte una decina di ufficiali italiani fra cui Di Maio e Toselli, una dozzina di compagnie di truppe nazionali e altrettante indigene, fiancheggiate da diverse bande di irregolari, in tutto circa duemila uomini. A Ghinda era stato impiantato un grande magazzino di sussistenza che andò man mano ingrossandosi. Possiamo dire oggi che l’occupazione di Asmara fu un esempio di organizzazione militare. Asmara (che significa “bosco fiorito”) si trova a 2.347 metri di altezza e se fino a Ghinda si arrivava abbastanza facilmente, dopo non esistevano che stretti sentieri appena tracciati. Uno dei problemi più seri era quello dei portatori che con i loro muletti erano divisi in squadre di venti uomini ciascuna al comando di un caporale e costituivano tre distinti gruppi: uno di essi faceva la marcia col carico da Ghinda ad Asmara in un giorno; nel giorno successivo ritornava scarico a Ghinda dove si riposava il terzo giorno. Ogni portatore teneva un carico di 20 chilogrammi pari a 30 razioni di farina per gli indigeni o di galletta per i soldati italiani: questi venivano pagati una lira al giorno più 500 grammi di farina. In seguito i portatori aumentarono a 2600 con 1000 cammelli e 250 muletti. La marcia su Asmara non ebbe ostacoli di sorta e si registrò solo un ferito fra le truppe italiane che si ruppe una gamba cadendo. Il giorno 3 agosto Baldissera entrò in Asmara, ma dovette subito far fronte ad un grande problema: nell’altipiano era la stagione delle grandi piogge e tanto per ricordarlo madre natura inviò un temporale che Baldissera descrisse come un uragano con grandine di una grossezza eccezionale accompagnato da un freddo intensissimo. L’arrivo all’Asmara non fu quindi festeggiato; le truppe cercarono alla meglio di ripararsi dal freddo e dalla pioggia e fin dal giorno successivo con febbrile attività iniziarono a costruire ripari in quanto l’Asmara di allora era costituita solo da poche capanne.
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